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imagesLa madre di tutti gli orrori per me è stato La Scala a Chiocciola (The Spiral Staircase, Robert Siodmak, 1946), visto da bambino per errore (i miei non sapevano di che film si trattasse), quando ancora avevo un sacro terrore del buio tanto che per raggiungere il bagno di casa in fondo al corridoio avrei acceso le luci dell’intero caseggiato, ma me la cavavo trattenendo il fiato e correndo quei dieci metri fino al bagno cercando di premere al volo l’interruttore della luce prima che qualche mostro mi afferrasse dal nero e mi portasse via con sé. Perché ve lo dico? Perché in seguito racconti, romanzi, film, fumetti dell’orrore hanno fatto parte del mio immaginario, dai più raffinati e immaginifici Stevenson, Poe, Lovecraft, Fisher, Corman, ai King, Lansdale, Cronenberg, Kubrick, Romero, Gordon, Yuzna, Creepy (Zio Tibia), senz’altro più realistici e inclini all’effettaccio splatter. Forse era un modo per esorcizzare la paura, per dimostrare a me stesso che ero adulto (anche a quattordici anni), per respingere e ridurre a effetto speciale quel mostro che si nascondeva sotto il letto e appena chiudevo gli occhi saltava fuori per aggredirmi.
Ora, però, un conto è la finzione scenica, un conto è la realtà.
Io amo il mio dentista. E anche la sua assistente, ma non per i motivi abbietti che pensate. Li amo perché hanno riserve inesauribili di anestetico che mi mettono a disposizione quando voglio. Non sono di quelli che “massì, sentirà un po’ di dolore, ma non si preoccupi, è sopportabile e dura poco”. No, loro ti chiedono “senti male?. Ti faccio un’iniezione? E prima dell’iniezione un batuffolino intriso di lidocaina sulla gengiva così non senti nemmeno l’ago che entra?” Ecco perché li amo. Riusciamo persino a inscenare la gag de “Il Maratoneta” con lui nella parte di Laurence Olivier e io in quella di Dustin Hoffman, tanto ci divertiamo. Solo che l’ultima volta prima di recarmi da quell’allegro burlone ho visto uno stupido film horror giapponese. L’immaginario orrorifico dei giapponesi consta di elementi analoghi ai nostri, sangue, dolore, spiriti maligni, fantasmi, ma con l’aggiunta dei capelli, lunghi, lunghissimi, neri e folti, che si diramano ovunque, nelle stanze da letto e nei bagni, calano dal soffitto, emergono dagli scarichi, invadono gli ambienti, a volte soffocano e strangolano le vittime, altre basta la loro vista per causare arresti cardiaci, colpi apoplettici, spaventi mortali e volti contorti in smorfie grottesche. Altro elemento spesso presente in queste pellicole è l’ago. Non perché le geishe assassine amino il ricamo a punto croce e nemmeno le virtù terapeutiche dell’ago-puntura (tradizione più cinese che nipponica) ma, piuttosto, pare sia apprezzato come strumento di tortura, infilato sotto le unghie, per cucire le palpebre o tenerle inesorabilmente aperte (a questo aveva pensato anche Dario Argento in Opera, già molti anni fa), piantato nelle gengive…
Già, le gengive. Ecco la lezione. Quell’immagine mi ha perseguitato per tutta la seduta. Nonostante il dolore fosse pressoché inesistente, ogni volta che il gaio odontoiatra mi infilava un attrezzo in bocca, la mia mente tornava a quella sciagurata e alle sue gengive traforate e sanguinanti. Non solo: in sala d’aspetto ho malauguratamente sfogliato una rivista per dentisti pubblicata da un mio ex editore, uno di quelli che mi hanno fatto passare la voglia di scrivere per i giornali dopo venticinque anni di pagine al piombo. Queste riviste sono per dentisti, appunto, non per i loro pazienti che non sono abituati a guardare così a fondo nelle bocche altrui, soprattutto se hanno bisogno di un dentista: sangue, polpa, carie, ascessi, granulomi e tutto il catalogo patologico sono illustrati a colori nel dettaglio e corredano articoli tecnici di grande interesse per un addetto ai lavori, ma di enorme ribrezzo per il profano. Seconda lezione: in sala d’aspetto farsi gli affari propri, abbiamo lo smartphone apposta per distrarci e non pensare. Magari andate sul blog bonsaisuicidi, dove trovate sempre letture interessanti e d’evasione. 🙂

24 dicembre, manca l’olio d’oliva e la passata di pomodoro, che nella mia cucina sono fondamentali. Decido di affrontare l’orda della vigilia e muovere verso il super. Avrei voluto alzarmi prima, ma ormai sono le 9,30 ed è fatta. Guardo la macchina, non la lavo da tre mesi, non piove mai, se passo vicino ad una centralina anti-inquinamento e rilascio un po’ delle polveri accumulate il sindaco fa chiudere la città al traffico per un anno. Decido di andare all’autolavaggio, con due euro me la cavo, le do una sciacquata e mi lavo anche un po’ di coscienza, visto che è un diesel euro3, razza maledetta di questi tempi. Giunto sul posto noto un po’ di fila: per forza, è sabato, la vigilia di natale, tutti si sono accorti di quanto è sporca l’auto e decidono di lavarla per fare bella figura coi parenti. Non è tutto: a parte i pervertiti, quelli che lavano l’auto con meticolosità psico-patologica, la insaponano, la risciacquano, la asciugano e la massaggiano come delle geishe thailandesi, ci sono gli impediti che infilano i gettoni nel verso sbagliato, li incastrano nella macchinetta, la bloccano e non sanno come fare, si guardano in giro imbarazzati  – in tutte le auto in attesa c’è qualcuno che scuote la testa come a dire “ma guarda che pirla” – per scovare un addetto, ma quello si deve essere imboscato e la fila si allunga. Basta, ho l’auto sporca e ma la tengo, alla faccia del sindaco, dei parenti e di tutti quelli che quando passerò si volteranno a dire “ma guarda quello con che auto va in giro”. Mi dirigo verso il super e fermo al semaforo vengo adocchiato dal solito lavavetri armato di spazzolone. Avanzo di un paio di metri e gli faccio segno con la mano che non ho bisogno. Non ho bisogno???? Stavo per dare due euro ad una stupida macchinetta automatica, senza nemmeno conoscerne il proprietario, per lavare la macchina con le mie mani e rifiuto 50 centesimi ad un ragazzo, un essere umano che sta in mezzo alla strada, respirando le peggio cose, imbacuccato in sciarpe e maglioni visto il freddo che fa, che mi avrebbe almeno lavato il parabrezza per vederci un po’ meglio e mi avrebbe pure detto grazie e buon natale? Ma sono scemo? No, sono un coglione, ci sono voluti solo dieci secondi per rendermene conto, troppi, comunque, perché il semaforo verde è scattato, il ragazzo si è già allontanato e le macchine dietro pretendono giustamente di attraversare l’incrocio. Naturalmente al super si è riunito tutto l’universo e per comprare due cose mi tocca fare una coda biblica, che quella nella valle di Giosafatte al confronto sembrerà la fila davanti al cinema dove proiettano l’ultimo film di Kiarostami. Facciamo cose insensate, senza pensarci, solo per abitudine, pessima abitudine. Abbiamo delegato il pensiero all’istinto, viviamo di impulsi, agiamo compulsivamente. Forse anche perdere mezz’ora a scrivere queste righe è un’azione compulsiva, non sarà molto utile, ma almeno mi ha dato modo di rifletterci su. Ve le lascio, se avete cinque minuti da perdere.

E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili maturano i frutti del furore e s’avvicina l’epoca della vendemmia.

(John Steinbeck, Furore, 1939)

Siamo il popolo, la gente che sopravvive a tutto, nessuno può distruggerci, noi andiamo sempre avanti.

(Ma’ Joad, Furore, John Ford, 1940)

Il 21 febbraio avevo postato queste citazioni dopo avere rivisto il film di John Ford e avere scoperto che, nella edizione italiana, la frase citata da Ma’ Joad, pur essendo fortemente emblematica, chissà perché, era stata tagliata. Sono in vena di classici, ultimamente, forse perché il mio romanzo si è arenato in rilettura e sto cercando motivazioni. In questi ultimi due giorni ho sorbito (è il verbo esatto, a sorsi brevi e frequenti) Stabat Mater di Tiziano Scarpa e, al di là dell’argomento musicale che mi ha intrappolato, l’ho trovato alquanto deludente, nella sostanza e nella forma. Questione d’opinioni, naturalmente e di propaganda televisiva, dato che era stato parecchio “pompato” nei programmi di divulgazione letteraria (è Einaudi) e mi ero fatto convincere. M’aspettavo di più. Ora, I Karamazov dovranno aspettare, perché Tom Joad ha preso il sopravvento.

Quando si cambia casa, zona, città, Paese, si trasloca insomma, cosa si fa in prima istanza? Sì, certo, si impacchetta tutto in appositi scatoloni recuperati nel retro di qualche magazzino, scartando quelli umidi, marci o che hanno contenuto forme di vita aliene, poi ci si accorge di avere un’enormità di roba e gli scatoloni, da parallelepipedi che erano originariamente, si trasformano in solidi che neppure Euclide saprebbe definire, dato il numero e l’irregolarità delle facce. Allora si deve selezionare, si butta il superfluo, si piagnucola un po’ perché certe cose si vorrebbero tenere, ma non si può conservare tutto e il distacco è sempre doloroso, ma checcazzo! siamo uomini e dobbiamo dimostrarci tali, ma non troppo, altrimenti ci si fa del male per nulla. Alla fine si carica il tutto su un camion, i meno fortunati o più parsimoniosi si accontentano di numerosi viaggi in auto o selezionano più profondamente, tagliano le necessità intrinseche ed estrinseche, morali e materiali e partono solo con uno zainetto pieno di dischi e libri e via!, verso la nuova destinazione. Ivi giunti, ci si guarda in giro entusiasti per le nuove scoperte che ci attendono, le avventure che ci coinvolgeranno, le inedite sensazioni che avvolgeranno la nostra anima. Tutto questo deve però aspettare, perché c’è da aprire gli scatoloni e decidere la collocazione di ogni cosa, sperando di trovare un posto per ogni cosa e mettere ogni cosa al suo posto, come diceva quella macera-palle di Mary Poppins. Il ripiagnucolamento riprende inevitabilmente quando ci si accorge di non avere più quel soprammobile che ci piaceva tanto, comprato in quel negozietto della ValdiNon o il portafortuna bretone, il triskell irlandese o la felpa delle isole Andenes con la balena. Mapperdiana, chissenefrega dei soprammobili e del portafortuna! Piuttosto, dov’è finito il disco di Tuck & Patti??!! Sparito! L’ira funesta rischia di rovinare l’atmosfera nostalgica. Chissà, magari in fondo a qualche scatola verrà fuori. Comunque, svolte le incombenze logistiche, è il momento delle pubbliche relazioni. Quando si abita una nuova casa, ci si presenta ai vicini o sono loro a venirci a trovare? Chi deve fare il primo passo? Si suona il campanello e, come un rappresentante di aspirapolvere, “salve, mi presento, sono il vostro nuovo vicino di casa”, oppure si attende che venga organizzato un comitato d’accoglienza e una sera, mentre si torna a casa, si ha l’improbabile sorpresa di trovare uno striscione nell’androne con scritto “Benvenuto! e tutti che applaudono e sorridono come deficienti? Sono così pericolosamente vicino all’asocialità, che sarà bene guardarsi intorno, perché ho l’impressione che il comitato di benvenuto sia un’invenzione da film americano stile Brian Yuzna, dove si scopre che i cortesi concittadini in realtà sono una setta cannibale invasata e non voglio finire fagocitato durante un’orgia. Vado e busso. Vi saprò dire. Se sopravvivo.