Category: Leggi e diritto


Avevo sedici anni nel 1978. Viaggiavo per Milano col mio vespino e i “problemi” che dovevo affrontare erano la scuola (come sfangarla), le ragazze (come attirarne l’attenzione), il rapporto con i genitori (mai così conflittuale), la politica (litigavo con tutti, ma nemico di nessuno), tutto sommato la vita di un normale ragazzino di quegli anni senza troppi pensieri. Finché un giorno non mi fermano i carabinieri a un posto di blocco. Da pochi giorni avevano rapito Aldo Moro (ci avevano mandato a casa da scuola due ore prima quel 16 marzo) e uno come me, su una Vespa del ’64 un po’ ammaccata, con i capelli lunghi, il giaccone di pelle scamosciata comprato usato alla fiera di Sinigaglia, non poteva non essere fermato. Naturalmente, come si faceva in questi casi, si assumeva l’aria più innocente e cordiale possibile, tipo “Socio del club Amici delle Forze dell’Ordine”, magari per evitare che ti frugassero a fondo nelle tasche dove per distrazione ti era finita una minima quantità di sostanza allora illegale e si cercava di risolvere la questione più in fretta possibile. Senonché, i carabinieri erano piuttosto nervosetti e al mio gesto di infilare la mano nella tasca interna del giaccone per estrarre i documenti mi sono ritrovato la canna del mitra tra le costole. Avevano paura di uno come me. A quel punto mi sono reso conto che il clima era cambiato, che la città viveva in uno stato d’assedio, che niente sarebbe stato come prima.
Ecco, questo episodio mi è tornato alla mente poche ore fa, riflettendo sui fatti di Parigi e su ciò che il terrorismo – non solo quello delle BR, perché c’era già stata Piazza Fontana, Brescia, l’Italicus, Peteano e poi Bologna due anni dopo – aveva perpetrato nella società: persino i carabinieri erano terrorizzati.
Ora, io ho avuto la fortuna di non vedere la guerra, sono nato in un periodo relativamente fortunato e in una parte di mondo relativamente fortunata, ci tengo alle mie abitudini e l’abitudine alla libertà di andare dove voglio, quando voglio e con chi voglio è quella che preferisco. Non voglio rinunciarvi. E se anche comprendo la disperazione di chi non è fortunato come me, che nasce e cresce in un posto del mondo in cui la violenza è il linguaggio quotidiano, dove le questioni si dirimono a colpi di pistola o di mitraglietta, andare a scuola, leggere un libro, ascoltare musica, godere di un’opera d’arte sembrano obiettivi irraggiungibili e il desiderio di fuggire si scontra con la difficoltà di abbandonare la propria terra, i propri cari, i sapori, i profumi, le abitudini quotidiane a cui si è affezionati e, non ultime, le difficoltà economiche per intraprendere un viaggio del quale non si conosce l’esito e perciò offro tutta la mia solidarietà, non concepisco che mi si possa impedire di vivere come voglio – una libertà per la quale milioni di persone hanno combattuto nello scorso secolo – in nome di un’entità metafisica, che si sarebbe manifestata in qualche maniera misteriosa e avrebbe dettato regole che qualcuno ha trascritto,  spesso in luoghi impervi, non si sa bene con quale cognizione di sintassi e punteggiatura e qualcun altro avrebbe letto e qualcun altro ancora avrebbe tradotto, interpretato e spiegato con parole sue ad altri in una catena di trasferimenti orali e scritti da perderci la testa. Di teorie sulla natura del mondo, dell’universo, della specie umana, ve ne sono di ogni tipo, dalle più divertenti alle più cupe, nessuna di queste garantita al 100%, perché teorie, appunto. Ma si da il caso che qualcuno abbia, invece, delle certezze e ne sarebbe talmente “certo” da non ammettere altra spiegazione. Quel che è peggio, purtroppo, è l’utilizzo che fa di queste teorie per fomentare la rabbia di chi si sente in credito con la vita e il mondo e trasformarla in odio verso chi ha avuto la fortuna di costruirsi un’esistenza ragionevolmente sostenibile. Chi fa questo, ne sono convinto, non crede in quelle teorie o, comunque, le usa strumentalmente, di fatto tradendole, mandando al massacro ragazzi, a volte bambini, per uccidere altri ragazzi e bambini che non hanno alcuna responsabilità né colpa, se non di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Non trovo nulla di sbagliato o riprovevole nel credo religioso, se esiste da quando è nata l’umanità, evidentemente si tratta di un’esigenza ineluttabile per cercare di dare un minimo di senso a questa tragicommedia che chiamiamo vita. Tuttavia mi piacerebbe che restasse un fatto privato di ognuno, anche perché la morte, quando arriva, ci trova soli e quello che c’è dopo lo sa solo lei. E state tranquilli, non ci rovinerà la sorpresa raccontandocelo prima.

Oggi sono arrabbiato. Ieri ero arrabbiato e lo sono ancora oggi. Per ragioni personali e non solo. Sono cresciuto in un’epoca in cui il sabato pomeriggio i  miei genitori non mi facevano uscire, per paura che finissi coinvolto negli scontri di piazza che in zona Città Studi erano frequenti e violenti. Io lo ritenevo un sopruso da parte loro, avevo dodici-tredici anni, mentre in realtà era un modo per proteggermi. Avrei dovuto prendermela con chi gli scontri li provocava, li aizzava, li infiltrava, ma provavo una certa simpatia istintiva per chi contestava l’ordine costituito, la divisa, la disciplina imposta, senza nemmeno distinguere tra regole di convivenza civile, diritto alla protesta e abuso di potere. In mezzo alla nebbia di Milano di quel tempo e al fumo dei lacrimogeni non era semplice per un ragazzino, metaforicamente parlando e non solo, capire cosa stesse succedendo. E persino oggi, che il fumo se ne è andato e la nebbia non c’è più, a distanza di quarant’anni, è difficile separare il bene dal male.
Ieri ho provato una sensazione molto simile, ma più consapevole. Ero quasi pronto per uscire e andare a godermi un’interessante conferenza e poi un bel concerto di Gustav Mahler, quando mi telefonano e mi dicono di accendere la tv, perché Milano era preda dei devastatori. In un primo momento mi sono chiesto in quale film fosse possibile una cosa del genere, ma dato che ho poca dimestichezza col decoder, mi indicano un canale preciso in cui si sta trasmettendo la cronaca del saccheggio minuto per minuto. In effetti, appena acceso il televisore, la scena mi è familiare: auto in fiamme, vetrine sfondate, nuvole di gas lacrimogeni e, novità rispetto a quarant’anni fa, fumogeni colorati, che, ho scoperto, servono a coprire le manovre tattiche dei manifestanti. È impressionante, non sembra reale, pare un film su quegli anni e invece è l’evento in diretta. Purtroppo alcuni cronisti non conoscono la città e indicano strade a caso, come via Cairoli, che a Milano non esiste, ma probabilmente confusa con via Carducci e predicono assurdità del tipo “i manifestanti giunti in via Mario Pagano probabilmente si stanno dirigendo verso il sito dell’Expo in zona fiera, non sapendo che il polo fieristico cittadino  nulla ha a che fare con l’Expo che è a dieci chilometri di distanza nell’area di Rho-Pero, difficilmente raggiungibile a piedi. Ma, a parte la cronaca parlata, sono le immagini a spiegare il dramma. E monta un certo nervosismo, perché col tempo sono diventato intollerante rispetto al sopruso, da qualunque parte venga. Nessuno può limitare la mia libertà finché vivo in un Paese democratico e se voglio uscire di casa non c’è manifestazione che me lo possa impedire o poliziotto che me lo possa vietare. Eppure, quello che temevo potesse accadere, puntualmente accade: appena pronuncio la fatidica frase “allora usciamo?” la mia compagna risponde “non vorrai uscire con quello che sta succedendo, vero?”. Ecco, ero tornato il ragazzino di quarant’anni fa che non può uscire di casa il sabato pomeriggio (era venerdì, ma fa niente). Ora, avrei potuto discutere e convincerla che ormai era tutto finto, che quelli vestiti di nero si erano spogliati di cappucci, maschere antigas, avevano deposto bastoni e mazze e si erano dileguati, ma non è questo il punto. Erano riusciti a spaventare le persone ed è questo che non tollero, perché l’ho già visto: è una tecnica del potere, quello istituzionale, terrorizzare la gente e costringerla a casa, perché così la controlli meglio, le spieghi cosa succede fuori e le impedisci di verificare di persona. Svuoti le strade e ne diventi il padrone.
No, non si può tornare a questo, perché la strada è la vita, perché la vita si svolge fuori dall’uscio, perché fuori dall’uscio incontri le altre persone, con le quali puoi manifestare il tuo pensiero affinché altri lo conoscano, ma senza imporglielo, ma semplicemente proponendolo ed è ciò che si sta tentando di impedire.
Una volta i cortei avevano un servizio d’ordine auto-organizzato, erano famosi i Katanga, che impediva fuoriuscite e infiltrazioni. Certo, a volte era lo stesso servizio d’ordine responsabile dei disordini, ma almeno erano chiare le responsabilità. Com’è possibile che oggi un corteo che si dice pacifico e gioioso, possa essere infiltrato da centinaia di “guerriglieri” che devastano il centro di MIlano o poi si mescolino di nuovo tra la gente senza che nessuno reagisca? Chi organizza il corteo si deve prendere la responsabilità di respingere queste infiltrazioni, altrimenti ne è connivente, anche solo ideologicamente o per omissione di sorveglianza.
Mi costa sforzo dirlo, ma credo che le forze dell’ordine nella circostanza abbiano optato per il male minore non avendo attaccato direttamente i devastatori (avrebbero rischiato di trasformare Milano in un campo di battaglia e rischiando di coinvolgere anche chi non c’entrava nulla), ma credo anche che un lavoro di prevenzione non sia stato fatto correttamente. Questa gente è organizzata, dotata di attrezzatura acquisita da qualche parte (mazze, fumogeni, maschere antigas), sapevano cosa fare, come farlo e come darsela a gambe una volta compiuto lo scempio. Ci sono delle menti che progettano, studiano il terreno e delineano percorsi, luoghi di scontro e vie di fuga. Si tengono in contato tra loro e sanno come confondersi con la folla una volta portata a termine la missione.
La mia rabbia, come dicevo all’inizio, è personale, ma la sento anche collettiva ed è quella di chi non vuole tornare indietro a tempi troppo bui per essere ricordati con piacere e che guarda con preoccupazione la nuvola scura che si sta avvicinando, all’interno della quale si muovono persone incappucciate, mascherate e vestite di nero.

Giulio Cancelliere

2009_1697_4717Fondamentalmente sono un libertario, ai confini con l’anarchismo, se non considerassi quest’ultimo un’ipotesi di mondo ideale basato esclusivamente sulla responsabilità, sulla coscienza, sulla legge morale di kantiana memoria e quindi pura utopia. Mi fa ribrezzo l’autoritarismo, provo nausea per l’arroganza, detesto il privilegio acquisito senza merito e sbattuto in faccia a chi non ne è ritenuto “degno”. Insomma, mi piace che ognuno faccia quello che gli pare nei limiti della decenza, del rispetto e della tranquillità altrui. Ma non sulla mia testa dove esigo ordine e disciplina. Ho cento milioni di miliardi di capelli e ognuno – e dico ognuno – fa quel diavolo che vuole. Non c’è regola, non c’è decoro.
Mi sveglio al mattino e guardandomi allo specchio mi rendo conto del degrado della società pilifera, del disfacimento che dilaga sul cuoio capelluto, dell’emarginazione cui sono relegati coloro che tentano un recupero di certi valori che sempre ho cercato di instillare tra i bulbi: diventano bianchi per lo sforzo ed esposti prima al pubblico ludibrio – spiccano, infatti, come candide betulle in un bosco di brune querce – e poi all’esilio, costretti ad abbandonare i luoghi in cui sono cresciuti lucidi e vigorosi, destinati a precipitare nello scarico del lavabo estirpati dal crudo dente del pettine. Gli altri se la godono, invece, stravaccati uno sull’altro senza alcun criterio estetico o ritti in piedi, stirati per tutta la lunghezza, come fossero attratti da una forza magnetica dal cielo oppure schiacciati sulla pelle, soprattutto al mattino, senza alcuna voglia di sollevarsi assieme al loro proprietario, che con immensi sforzi cerca di guadagnare la posizione verticale abbandonata solo qualche ora prima. Acqua e pettine non sortiscono che effetti risibili: talvolta i fedifraghi fingono di sistemarsi come padrone comanda, ma è solo un modo per illuderlo e burlarsi di lui senza ritegno dopo pochi minuti.
Ricorrere alla decimazione produce solo effetti temporanei e di brevissima durata. Le visite dal parrucchiere (chissà poi perché si chiama così, visto che quasi mai vende parrucche) sono frequenti, ma ben poco soddisfacenti, anche perché l’abile tonsor sa benissimo che meno taglia e prima vedrà tornare il cliente e perciò lo tradisce fingendo profonde sforbiciate, ma in realtà nasconde la lunghezza della chioma orientandola orizzontalmente di modo che al cliente appaia un taglio a spazzola, quando, invece, gli infingardi cornei sono pronti a drizzarsi al primo lavaggio casalingo. Canaglie.
Ieri, poi, in piscina hanno tolto i normali asciugacapelli a forma di pistola – che conferiscono all’utente una strana postura da aspirante suicida – e installato degli apparecchi asciugamani, di quelli che si trovano normalmente nei bagni dei locali, dei teatri, degli autogrill, che soffiano un getto d’aria calda da un bocchettone lungo pochi centimetri. Li hanno posti ad altezze variabili, affinché ognuno possa scegliere il suo a seconda della generosità che la Natura ha voluto mostrare nei loro confronti in termini di apparato scheletrico. Ci si colloca sotto il getto e si avvia il macchinario (a pagamento, 20 cent): vi lascio immaginare il risultato sotto una corrente tiepida da galleria del vento concentrata in un flusso di cinque centimetri di diametro. Sono uscito dalla piscina che sembravo l’omino della Presbitero, quello che molti anni fa pubblicizzava il noto marchio di strumenti per la scrittura manuale. Ho guardato con invidia i compagni di nuoto che non hanno tale necessità, bastando loro una salvietta per asciugarsi l’epidermide sgombra da qualsivoglia germogliazione pelosa e mi è parso che loro guardassero me, ma non so se con invidia per l’esuberanza tricotica o compatimento per l’acconciatura eolica.

L’abbiamo ripostato con i titoli di coda e i credit

Il pezzo da combattimento di Giada de Gioia ora è anche un video. Nato in versione acustica in sostegno alla lotta delle operaie dell’Omsa di Faenza delocalizzata in Serbia è diventato una gioiosa macchina da guerra rock per tutte le donne.

Un ragazzo è stato denunciato per il possesso e la coltivazione di piante di canapa indiana in casa a Rozzano, in provincia di Milano. Trovo buffo e inverosimile che esistano leggi del genere in una società civile. Come se un giorno vietassero la coltivazione dei gerani dopo avere scoperto che se li annusi puoi vedere attraverso i muri come Superman e ciò violerebbe la legge sulla privacy. Ma in che mondo viviamo? A parte il fatto che ogni pianta ha delle caratteristiche peculiari se ingerita, fumata o annusata: dal vomito al ribrezzo, dal piacere all’estasi fino al decesso, ma non esiste, credo, un prontuario che regoli la possibilità di avere sul balconi una pianta carnivora che ci liberi dagli insetti molesti piuttosto che un oleandro, le cui foglie non sono particolarmente salutari se masticate. Con l’eccezione della canapa, però. Perché?
Su qualsiasi testo storico, scientifico, socio-economico, si può leggere la storia di questa pianta e dell’uso molteplice che si è fatto delle sue fibre, da quello industriale al terapeutico, passando per mistico e ludico, senza che ad alcuno venisse in mente che potesse costituire un pericolo sociale.
Solo negli anni Trenta, negli Stati Uniti – c’è chi sospetta una ragione puramente economico-industriale relativa alla produzione di carta indotta dalla famiglia Hearst – si è cominciato a far credere che la canapa, ribattezzata alla messicana marijuana, fosse strumento del demonio, corrompesse i giovani e minasse la società nei suoi principi basilari, che comprendevano, tra l’altro, razzismo, segregazionismo, fondamentalismo religioso, nazismo. Così, proditoriamente, a differenza dell’alcool, che davvero falcidiava migliaia di persone ogni anno, la canapa indiana divenne pianta proibita, non solo negli Stati Uniti, ma in gran parte del mondo industrializzato.
Ammesso e non concesso che sia una pianta pericolosa – anche se il concetto di pericolosità lo associo in genere all’aggressività e non mi pare che le piante di canapa abbiano mai aggredito qualcuno – è un processo alle intenzioni: se io utilizzo la pianta a scopo decorativo che male faccio? Quale legge violo? Fumarla e ingerirla è proibito? Bene, non lo farò. Non lo posso dimostrare, ma nemmeno lo Stato può dimostrare il contrario e io sono libero e innocente cittadino fino a che lo Stato non dimostri che ho commesso un reato. E perché non sono proibite le ortiche, allora, quelle sì davvero aggressive, che irritano la pelle se sfiorate, ma sono buone nella minestra? O i fagioli, che in quantità eccessiva provocano flatulenza, con effetti deleteri sul clima e i rapporti di vicinato? Cos’ha la canapa di così demoniaco?
Tornando alla notizia: la mamma del ragazzo denunciato, nella cui stanza da letto si trovavano alcune delle piante di canapa, spiega che da quando dorme con quelle rigogliose compagne vegetali non è più costretta ad assumere farmaci per prendere sonno e la aiutano persino a suonare il piano.
Ora, sullo stimolo della creatività per mezzo di stupefacenti si è scritto di tutto e ammetto di non avere opinioni precise a riguardo, anche perché non abbiamo controprove, ma qui non siamo in presenza di stupefacenti, ma di piante da cui, in alcuni casi e in determinate circostante molto particolari, si possono produrre stupefacenti. Per intenderci: l’uva non è sinonimo di sbronza e un vignaiolo non è uno spacciatore d’alcool.
Non sono un cultore dell’uso degli stupefacenti, che reputo infantile al di fuori del contesto rituale e ludico in adolescenza o poco più, ma di qui a considerare criminali gli utilizzatori ce ne passa.
La mia impressione è che viviamo in una società fortemente organizzata, ma altrettanto irrazionale, che facilmente crea mostri da temere e difficilmente riesce a liberarsene. In realtà i mostri li abbiamo dentro di noi e chi ha abbastanza potere persuasivo da proiettarli sugli altri è in grado di danneggiare l’intera società con gli effetti esponenziali che leggiamo ogni giorno sui giornali: ministri che firmano leggi invasive e devastanti, mentre i loro colleghi organizzano festini a base di qualsiasi cosa, giustificati e protetti dalla riservatezza della vita privata e dalla malintesa immunità. È l’impero dell’ipocrisia e dell’abuso, per fortuna in crisi e vicino al crollo. Una risata lo seppellirà.