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Ricevo una mail così titolata: “Stanchi di digitare Iban e i codici dei bollettini?”
Ma che domande sono? Come a dire: vi dolgono le falangi a schiacciare 27 volte su un tastino? I polpastrelli si lamentano per la troppa pressione? Cinque minuti per inserire un codice e due dati anagrafici vi sembrano un tempo biblico e un supplizio degno di Sisifo? Ma che avete da fare? Forse lavorare? In banca? Soprattutto ora che stanno sparendo gli sportelli dove si lavorava davvero, mentre oggi spesso vi riceve un impiegato stravaccato su una poltroncina dietro una scrivania, che fatica ad ascoltarvi e ancor più a fornirvi indicazioni e spiegazioni per il problema che vi ha costretto a recarvi in filiale invece di operare direttamente al computer da casa vostra?
Forse non sapete cos’è davvero la stanchezza!
Generalizzo, certo, i bancari che ancora sudano in ufficio mi scusino (e si cambino pure la camicia), ma alla mia banca succede questo.
E poi cos’è questa rincorsa dietro al tempo? Quella sì che stanca. Correre dietro all’orologio, che non si ferma più quando si esaurisce la tensione della molla, ma quando si scarica la batteria, che dura mesi. Solo il pensiero è spossante.
Non riusciamo più a prenderci il tempo di fare le cose con calma, neppure scrivere un codice per pagare una bolletta, attività, peraltro, non gradevolissima, ma comunque da effettuarsi con calma, prima di pagare la bolletta di qualcun altro. E certo, la fotocamera del telefono che inquadra l’Iban o il QR code, come da istruzioni, ci verrebbe in soccorso e risolverebbe il problema in pochi secondi, ma a che pro? Guadagneremmo tempo per fare cosa? Ci prendiamo il tempo di pensarci o lo usiamo solo per congratularci con noi stessi per avere capito le istruzioni e avere pagato la cifra giusta con il nostro costoso smartphone? A parte che ho visto collezioni di QR nei telefoni altrui, perché molti pensano che si debba fotografare invece che inquadrare solamente, ma stiamo diventando pazzi?
E avete notato che anche la nostra firma non vale più nulla? Quando riceviamo una raccomandata o un pacco e ci fanno firmare su uno schermo, retto in mano da un fattorino frettoloso che si accontenta di uno scarabocchio. Oppure quando acquistiamo qualcosa pagando con la carta di credito e ci dicono di firmare col dito sul vetro di una scatoletta piena di tasti, perché la penna elettronica se l’è già rubata qualcuno.
Con tutte le ore spese e le penne consumate da ragazzini nel tentativo di imitare la firma dei nostri genitori quando dovevamo siglare una nota sul diario o una giustificazione per essere entrati in classe un’ora dopo per evitare l’interrogazione di storia. Tutto tempo sprecato! Che ora ci vogliono far risparmiare facendosi beffe di noi e delle nostre firme. O meglio, dei nostri scarabocchi.

Post(umo)

Quando leggerete questo post io non ci sarò già più. Lo so, appare più tragico di quello che è veramente, ma tutte le cose finiscono, non c’è il permanente, è solo un’idea inventata dall’umanità per darsi un’illusione di eternità. Gli uomini si sono inventati l’immanente e il trascendente, il fisico e il metafisico, conscio e inconscio, carne e anima, aldiqua e aldilà, per avere delle porte da attraversare, confini da valicare, barriere da abbattere, qualcosa da fare nella vita, insomma, uno scopo da raggiungere. I viaggiatori viaggiano, gli esploratori esplorano, gli scalatori scalano, i navigatori navigano, gli speleologi speleologano, i ginecologi…uguale, ognuno si dà un nome e un obiettivo da raggiungere. Altrimenti la vita sarebbe una noia pazzesca oppure una gran confusione se gli scalatori navigassero o i navigatori speleologassero e i ginecologi…esplorassero…o forse no. Comunque, quello che ho fatto fino ad ora è stato parlare e scrivere, scrivere e parlare, leggere e studiare, studiare e leggere, fare domande, ascoltare risposte, elaborare concetti, “pettinarli”, come si dice oggi, perché non è detto che l’intervistato sappia esattamente quello che dice e come dirlo, e allora lo devi aiutare, usare un po’ di cosmetico per far apparire la sua espressione leggibile. È per quello che tanti intervistati non si riconoscono nelle parole scritte sul giornale. Se vuoi fare loro un dispetto, basta che riporti esattamente ciò che hanno detto, parola per parola, e qualcuno ogni tanto lo fa. Ma anche in questo caso ti dicono che non si riconoscono nelle parole stampate. In fondo è abbastanza ovvio: abbiamo una percezione soggettiva di noi stessi e ci vediamo con occhi dal visus limitato. Basti pensare a quando ascoltiamo per la prima volta la nostra voce registrata: uno choc, non pensavamo di essere così sgradevoli, avere quelle cadenze cantilenanti, essere così…ridicoli. Be’, ora basta, è il momento di chiudere, salutare tutti, lettori abituali e no, congedarsi con affetto, perché è stato bello, simpatico e divertente, ma, come dicevo prima, tutto ha un termine. Il biglietto è scaduto, l’ultimo spettacolo è stato proiettato e la parola The End è apparsa sullo schermo. L’inserviente ci sta cacciando, perché deve fare le pulizie e ha voglia di andarsene a casa anche lui. Togliamo il disturbo (non so perché improvvisamente sto usando la prima persona plurale, ma va bene, perché dà un senso di collettività, che al congedo ci sta) per le prossime due settimane (solo 15 giorni, cosa credevate??!!) in cui sono in vacanza. Au revoir!

All’ufficio postale, dopo mezz’ora di fila poiché chi era giunto allo sportello prima di me sembrava dovesse spedire l’Archivio di Stato in Tasmania, finalmente mi paro davanti all’agognato impiegato col mio pacchetto da spedire in contrassegno. Gli spiego cosa voglio e lui mi guarda smarrito. Faccio mente locale: sono qui, all’ufficio postale, non mi sarò sbagliato? Non sarò entrato per errore alla ASL? No, l’arredamento è quello, mi guardo intorno e vedo pacchetti, lettere, bollettini di conto corrente, cd di Ramazzotti, pubblicità di condizionatori d’aria, gite in mongolfiera, viaggi in Kazakistan (in Posta si vende di tutto, oggi) e le tabelle dei giorni in cui si ritira la pensione, così i ladri possono rapinare i vecchietti in ordine alfabetico. Sono in posta, indubbiamente. Allora perché l’impiegato mi guarda come se gli avessi chiesto di prenotare un esame proctologico? Mi allunga un modulino e scompare. Guardo il modulo. Non trovo lo spazio per il numero dell’assicurato e neppure quello per indicare quale tipo di esame prenotare, ma le familiari righe tratteggiate per destinatario, mittente e le caselline da barrare dei servizi accessori. Ma sì, è un modulo per raccomandate! Siamo sulla strada giusta. Ma l’impiegato non torna. Passano i minuti, la gente dietro di me prende a rumoreggiare: c’è chi evoca il malgoverno, la privatizzazione delle poste, i sindacati, gli impiegati fannulloni, il “si stava meglio quando si stava peggio”, “è tutto un magna magna”, “io ho fatto la guerra, “e io la resistenza”, “sì, dentro la lampadina”, “e come si permette”, “e i ragazzi di Salò”, “e quelli di Reggio Emilia”, “e mio nonno è stato ferito sul Carso” “e il mio sul sedere” e via delirando. Per forza, mi hanno visto con un pacchettino in mano, hanno sentito che lo spedisco contrassegno, hanno pensato:se non è un trucco e, oltre al pacchettino, non ha nascosto in tasca anche un mazzo di raccomandate spesso come le pagine gialle, in due minuti questo se la cava. E invece no. I minuti trascorrono, si moltiplicano, aumentano in modo esponenziale. Quando stiamo per arrivare al tempo di cottura dell’uovo sodo, mentre alle mie spalle le rievocazioni storiche sono già arrivate all’Alleanza del Nord di Annibale contro Roma Ladrona, ecco tornare l’impiegato: è pallido, ancora più smarrito, una piega gli torce la bocca verso il basso, gli occhi non hanno il coraggio di fissarmi, non sa come dirmelo. Io cerco di fargli coraggio, che tutto si risolve, in fondo non sarà questa tragedia, la vita va presa con filosofia, se sua moglie è scappata con il vicino turco, che l’ha portata nella sua villa scavata nella roccia nella valle pietrificata di Gòreme, significa che non lo meritava e si pentirà amaramente di avere abbandonato la magione di viale Fulvio Testi. Ma niente, leggo la disperazione nei suoi occhi. Alla fine noto che muove la bocca come per articolare delle parole che faticano ad uscire. Il tentativo non produce suono, l’aria non vibra, nessuno riesce a sentire ciò che corrisponde alla terribile verità che sta per essere rivelata. Vedo che l’impiegato riprova, ce la mette tutta, le vene gli pulsano sulle tempie, appoggia le mani sul bancone, si infilza una graffetta contorta nel palmo, ma non sente dolore, non esce neppure sangue, è persino in grado di controllarne volontariamente la coagulazione tanto è consapevole di se stesso e del proprio corpo. Finalmente il settimo sigillo è spezzato ed è la rivelazione: “abbiamo esaurito i foglietti per la spedizione contrassegno”. Come esauriti? “Sì, non ne abbiamo più, sono finiti, non ce ne siamo accorti e non ce ne sono più. Deve andare in un altro ufficio postale a spedire il pacchetto. Prenda pure il modulo delle raccomandate, quello lo può tenere.” La situazione è talmente paradossale, grottesca, che non riesco ad arrabbiarmi. Mi viene da ridere. Un po’ istericamente, ma rido. Esco, tra gli sguardi indifferenti della gente col mio modulino in mano, mentre un paio di tizi inveiscono reciprocamente citando nomi come Neanderthal e Cro-Magnon. Inforco la bicicletta e mi reco un paio di chilometri più in là, all’altro ufficio postale, dove la fornitura di “foglietti” è adeguata alla richiesta e il mio pacchetto contrassegno finalmente parte. Rifletto sugli eventi e penso che devo comprare un etto di crudo. Non è che il salumiere mi dirà che gli si è rotta l’affettatrice e mi proporrà di vendermi il pezzo di prosciutto intero, invitandomi a farmelo affettare da un altro salumiere?

Oggi sono arrabbiato. Ieri ero arrabbiato e lo sono ancora oggi. Per ragioni personali e non solo. Sono cresciuto in un’epoca in cui il sabato pomeriggio i  miei genitori non mi facevano uscire, per paura che finissi coinvolto negli scontri di piazza che in zona Città Studi erano frequenti e violenti. Io lo ritenevo un sopruso da parte loro, avevo dodici-tredici anni, mentre in realtà era un modo per proteggermi. Avrei dovuto prendermela con chi gli scontri li provocava, li aizzava, li infiltrava, ma provavo una certa simpatia istintiva per chi contestava l’ordine costituito, la divisa, la disciplina imposta, senza nemmeno distinguere tra regole di convivenza civile, diritto alla protesta e abuso di potere. In mezzo alla nebbia di Milano di quel tempo e al fumo dei lacrimogeni non era semplice per un ragazzino, metaforicamente parlando e non solo, capire cosa stesse succedendo. E persino oggi, che il fumo se ne è andato e la nebbia non c’è più, a distanza di quarant’anni, è difficile separare il bene dal male.
Ieri ho provato una sensazione molto simile, ma più consapevole. Ero quasi pronto per uscire e andare a godermi un’interessante conferenza e poi un bel concerto di Gustav Mahler, quando mi telefonano e mi dicono di accendere la tv, perché Milano era preda dei devastatori. In un primo momento mi sono chiesto in quale film fosse possibile una cosa del genere, ma dato che ho poca dimestichezza col decoder, mi indicano un canale preciso in cui si sta trasmettendo la cronaca del saccheggio minuto per minuto. In effetti, appena acceso il televisore, la scena mi è familiare: auto in fiamme, vetrine sfondate, nuvole di gas lacrimogeni e, novità rispetto a quarant’anni fa, fumogeni colorati, che, ho scoperto, servono a coprire le manovre tattiche dei manifestanti. È impressionante, non sembra reale, pare un film su quegli anni e invece è l’evento in diretta. Purtroppo alcuni cronisti non conoscono la città e indicano strade a caso, come via Cairoli, che a Milano non esiste, ma probabilmente confusa con via Carducci e predicono assurdità del tipo “i manifestanti giunti in via Mario Pagano probabilmente si stanno dirigendo verso il sito dell’Expo in zona fiera, non sapendo che il polo fieristico cittadino  nulla ha a che fare con l’Expo che è a dieci chilometri di distanza nell’area di Rho-Pero, difficilmente raggiungibile a piedi. Ma, a parte la cronaca parlata, sono le immagini a spiegare il dramma. E monta un certo nervosismo, perché col tempo sono diventato intollerante rispetto al sopruso, da qualunque parte venga. Nessuno può limitare la mia libertà finché vivo in un Paese democratico e se voglio uscire di casa non c’è manifestazione che me lo possa impedire o poliziotto che me lo possa vietare. Eppure, quello che temevo potesse accadere, puntualmente accade: appena pronuncio la fatidica frase “allora usciamo?” la mia compagna risponde “non vorrai uscire con quello che sta succedendo, vero?”. Ecco, ero tornato il ragazzino di quarant’anni fa che non può uscire di casa il sabato pomeriggio (era venerdì, ma fa niente). Ora, avrei potuto discutere e convincerla che ormai era tutto finto, che quelli vestiti di nero si erano spogliati di cappucci, maschere antigas, avevano deposto bastoni e mazze e si erano dileguati, ma non è questo il punto. Erano riusciti a spaventare le persone ed è questo che non tollero, perché l’ho già visto: è una tecnica del potere, quello istituzionale, terrorizzare la gente e costringerla a casa, perché così la controlli meglio, le spieghi cosa succede fuori e le impedisci di verificare di persona. Svuoti le strade e ne diventi il padrone.
No, non si può tornare a questo, perché la strada è la vita, perché la vita si svolge fuori dall’uscio, perché fuori dall’uscio incontri le altre persone, con le quali puoi manifestare il tuo pensiero affinché altri lo conoscano, ma senza imporglielo, ma semplicemente proponendolo ed è ciò che si sta tentando di impedire.
Una volta i cortei avevano un servizio d’ordine auto-organizzato, erano famosi i Katanga, che impediva fuoriuscite e infiltrazioni. Certo, a volte era lo stesso servizio d’ordine responsabile dei disordini, ma almeno erano chiare le responsabilità. Com’è possibile che oggi un corteo che si dice pacifico e gioioso, possa essere infiltrato da centinaia di “guerriglieri” che devastano il centro di MIlano o poi si mescolino di nuovo tra la gente senza che nessuno reagisca? Chi organizza il corteo si deve prendere la responsabilità di respingere queste infiltrazioni, altrimenti ne è connivente, anche solo ideologicamente o per omissione di sorveglianza.
Mi costa sforzo dirlo, ma credo che le forze dell’ordine nella circostanza abbiano optato per il male minore non avendo attaccato direttamente i devastatori (avrebbero rischiato di trasformare Milano in un campo di battaglia e rischiando di coinvolgere anche chi non c’entrava nulla), ma credo anche che un lavoro di prevenzione non sia stato fatto correttamente. Questa gente è organizzata, dotata di attrezzatura acquisita da qualche parte (mazze, fumogeni, maschere antigas), sapevano cosa fare, come farlo e come darsela a gambe una volta compiuto lo scempio. Ci sono delle menti che progettano, studiano il terreno e delineano percorsi, luoghi di scontro e vie di fuga. Si tengono in contato tra loro e sanno come confondersi con la folla una volta portata a termine la missione.
La mia rabbia, come dicevo all’inizio, è personale, ma la sento anche collettiva ed è quella di chi non vuole tornare indietro a tempi troppo bui per essere ricordati con piacere e che guarda con preoccupazione la nuvola scura che si sta avvicinando, all’interno della quale si muovono persone incappucciate, mascherate e vestite di nero.

Giulio Cancelliere

Yaaaaahhhhhh!!!!A volte mi sembra di scrivere da sempre e, invece, sono meno di trent’anni. Professionalmente ho usato il linguaggio parlato molto più di quello scritto, anche se da qualche tempo le modalità si sono invertite in termini quantitativi. E sono solo dieci anni che scrivo per piacere personale. Quest’ultima fase è iniziata quando la parola scritta sembrava stesse tornando in auge dopo due decenni di video, immagine, apparenza, body language, talk show. Il blog mi ha spinto a mettere “nero su bianco” quel che penso della realtà che mi circonda, mi contiene e mi permea. Si stava di nuovo trovando il tempo e il silenzio interiore per soffermarsi a leggere. Ricordo post extra-large (non proprio i miei) di amici e colleghi sui quali poi si dibatteva per pomeriggi interi con “commenti” tanto circostanziati, scherzosi, puntuti, talvolta deliranti, da innescare a loro volta discussioni accese che partivano per la tangente del post principale. C’erano anche allora i cosiddetti “troll”, provocatori che agivano appositamente per far degenerare la discussione e quanti sforzi si facevano per rintuzzarne i tentativi, ignorarli, isolarli, persino dialogarci e tentare una conversazione civile. Non sempre con successo, ma spesso sì. E allora era una soddisfazione essere riusciti a coinvolgere una specie di mina vagante difficile da maneggiare, sempre sul punto di esplodere, ma anche stuzzicante per il punto di vista così distante che recava con sé. In questo era un maestro il mai dimenticato Luciano Comida, dal quale ho imparato tanto su come gestire certe situazioni, anche in pubblico. Ma era sempre la parola che prevaleva, la ragione, la riflessione, il confronto. È durato poco. Cinque, sei anni. Poi tutto si è trasferito sul social network, il mezzo con cui, volente o nolente, abbiamo dovuto prendere confidenza un po’ tutti. Ricordo quando mi iscrissi a FB, ormai quattro o cinque anni fa, un collega mi disse: “ah, ti sei iscritto al sito di Zuckerberg proprio ora che tutti se ne stanno andando.” Non so da cosa l’avesse dedotto, ma forse aveva ragione lui, visto che ha fatto più carriera di me, anche se FB esiste ancora. Non sempre avere torto è negativo, anzi, sparar cazzate spesso paga.
Con il “social” tutto è cambiato: ciò che con il blog, nonostante il video, tornava ad assomigliare a un articolo, a un breve saggio o a un elzeviro da terza pagina (per i più bravi), sul nuovo medium subiva una violenta contrazione e si riduceva all’essenzialità di una battuta, un motto, uno slogan. Non sono contrario alla sintesi (come potrei con il lavoro che ho fatto e ancora vorrei fare, ma alle mie condizioni?), ma la complessità del mondo non può ridursi a 140 caratteri, non è naturale, è illogico, anti-storico, stupido. Se poi il post vuole assurgere al ruolo di notizia, notiamo come sia l’iperbole la forma vincente: in altre parole, più la spari grossa e maggiore sarà l’impatto e la credibilità. Ci sono siti, travestiti da giornali, che prosperano sulla moltiplicazione delle loro “notizie” grazie agli utenti di FB, i quali, in buona fede o meno, “condividono” questa melma irritante e corrosiva, buona solo per ingenerare rabbia, esasperazione, violenza, coltivare l’ignoranza e diffondere l’inganno.
Non si dialoga più, il confronto è una perdita di tempo, ragionare è un segno di debolezza e non ci si può permettere di essere deboli quando si combatte. Non sono pochi coloro che si sentono in guerra in questo momento, incoraggiati anche dai messaggi che giungono dalla cosiddetta classe dirigente, totalmente irresponsabile e senza dignità.
E allora, perché non sottrarsi al gioco al massacro, perché contribuire alla popolarità del sistema, perché partecipare e poi criticare? Perché non vivo in una grotta in mezzo alle montagne o in un atollo della Polinesia, ho necessità di restare in contatto con il mondo, anche se non sono l’animale più sociale che esista, ho bisogno di guardarmi intorno e capire cosa succede, ho l’esigenza di interpretare la realtà, leggere gli altri per comprendere chi sono io. Il giorno che sarò sazio di tutto questo sarà l’ultimo.

Black_sportscar_of_the_Association_Lorraine_des_Amateurs_dAutomobilesL’ultima volta che mi hanno investito pensavo fosse finita, ho creduto davvero che non ce l’avrei fatta.  E invece mi hanno rimesso in piedi. Era uno di quei macchinoni sportivi, ma di lusso, cabriolet, dove il guidatore, rolex d’oro al polso sinistro, braccialone da un chilo a quello destro, ha sempre al fianco una di quelle bionde gonfiabili che sembrano esistere solo sui sedili delle auto da più di cinquantamila euro, non vivono altrove, non le incontri mai al supermercato o in libreria, anzi, te le vendono come optional già sulla macchina, omologata cinque posti meno uno. Be’, quella volta la bionda non c’era, sarà stata in officina per il tagliando, il ganzo era da solo, stava telefonando, consultando il navigatore, sintonizzando la radio, scegliendo un cd, mandando un sms contemporaneamente e si è dimenticato di guidare. Mi ha investito in pieno e, di rimbalzo, è finito contro una bisarca carica di auto dello stesso modello della sua. Non ha fatto in tempo a scegliere il colore che gli piaceva, ora sta discutendo con San Pietro se si può installare il climatizzatore e l’home-theatre multicanale 7.1 sulla nuvola che gli hanno assegnato. Io, come dicevo, me la sono cavata bene, mi hanno rimesso insieme e sono tornato come prima. Non posso davvero lamentarmi della forma: alto lo sono sempre stato, magro anche, e se sto in piedi tutto il giorno non mi stanco. Sono un po’ annoiato, questo sì: non che mi manchi la compagnia, ho sempre un sacco di gente intorno che mi da retta, comunico molto, ho una vita sociale veramente intensa, di giorno e di notte, non ho quasi il tempo di riposarmi. Il fatto è che non si va mai da nessuna parte, mentre io, invece, vorrei vedere posti nuovi, angoli di città che non ho mai frequentato, circolare un po’ in questa metropoli che mi dicono “tentacolare”, ma che a me sembra sempre la stessa. Sì, ogni tanto rifanno la strada qui sotto, una puzza di catrame che non vi dico, ma poi è il solito tran-tran. E insomma, questo cartello con la scritta STOP che mi hanno appeso sulla fronte mi sta largo: io l’avevo detto all’operaio che doveva stringere meglio le viti. Eh, quanto è dura la vita del palo!