Ogni volta mi dico che dovrei ricominciare a scrivere sul blog come ho fatto per anni dal 2005 e poi trovo ogni pretesto per rimandare. Anche ora, mentre digito queste prime righe mi domando se ne valga la pena e cerco una scusa per smettere. È vero che si scrive per propria esigenza e il primo lettore è proprio l’autore, ma a questo dovrebbero seguire gli altri e non c’è alcuna garanzia. Scrivere è terapeutico, ma non sempre. Come guardarsi allo specchio: dipende dall’ora, dal momento, lo stato d’animo. Non abbiamo sempre voglia di leggere come siamo o come vorremmo essere.
Tra l’altro, il tempo in cui viviamo ci sta mettendo a dura prova: testare la nostra resistenza, l’autocontrollo, resistere alla voglia, sempre più pressante, di cancellarsi dai social, rintanarsi in un buco nero o aprire la finestra e mettersi a urlare finché ambulanza non mi separi dal consesso familiare comincia a essere uno sforzo.
Stavo giusto leggendo cosa scrivevo il 19 marzo scorso (nemmeno lo ricordavo) poco prima di andare a sbattere anch’io contro questo muro invisibile che vorrei non incontrare più. Mi è andata meglio, molto meglio, di tanti altri, ma non desidero ripetere l’esperienza, eppure sembra quasi di non avere scelta: nonostante la prudenza non sai mai se hai fatto tutto il possibile o qualcosa è sfuggita al tuo controllo.
Ma sono troppo autoreferenziale, mi sto già avvitando, succede quando manca realmente qualcosa da raccontare. È come quando lavori alla radio: non hai niente da dire, ma lo devi dire ugualmente, perché il silenzio è quasi proibito, a meno che non sia un effetto speciale.
Dovrei tornare a raccontare di Erik e Mimì, come quando narravo le avventure di Attila e Rossini con le quali ho riempito due libri. Se i due ceffi mi danno il permesso lo farò. Ormai è un anno che sono con me e i loro caratteri sono già ben delineati.
Per ora vi basti la loro immagine sufficientemente eloquente del rispettivo carattere.