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Rapsodia in nero r— La maggior parte delle favole che si raccontano ai bambini sono equivoche e malsane sotto certi punti di vista, a cominciare da quelle dei fratelli Grimm.
— Infatti, non sono storie per bambini, o meglio, sono storie per bambini dei primi dell’ottocento, che vivevano in una società tedesca rurale ed estremamente violenta, dove una delle prime cose che si imparava a fare in fattoria era sgozzare il maiale. Di lì a sgozzare un bambino il passo era brevissimo. E poi tutti quei morti impiccati, bruciati, squartati, divorati. I genitori che abbandonano frotte di bimbi nei boschi, come fossero ferri vecchi trovati nel capanno degli attrezzi. Per non parlare della quantità di simboli archetipici.
— Be’, sorvolerei sui dettagli psicanalitici.
— E perché? Sono i più interessanti e imbarazzanti. Proprio quelli che bloccano lo scrittore inibito. Ogni processo creativo necessita di sporcarsi le mani, como los niños che giocano per terra e tornano a casa todos nigros. La mamma li costringe a lavarsi, ma lavare lo sporco significa lavare via la creatività. I bambini crescono con l’idea che si debba vivere puliti. Invece se vuoi inventare devi essere sporco.
— Cosa vuol dire sporco? Io non credo a quelle pose da artista eccentrico, anticonformista e scandaloso di maniera. C’è il limite della decenza e della civile convivenza. E del senso del ridicolo.
— Già, è un limite, dici bene. Ma l’autore che inventa personaggi, l’attore che li interpreta al cinema o a teatro, lo stesso lettore che li immagina sulle pagine dei libri e si identifica anche solo in parte con loro, persino solidarizza in alcuni casi con loro, non possono prenderne le distanze, come spesso succede. I personaggi sono dentro di loro e aspettano solo il processo creativo per venire fuori. Creare è sporcarsi. Sporcarsi è creare. Non se ne può fare a meno. Anche Dios si è sporcato le mani per fare l’uomo. Anche lui ha tentato di prenderne le distanze senza riuscirci. Alla fine ha dovuto ammettere che era roba sua, carne della sua carne e sangre de su sangre. E ne ha sparso parecchio per dimostrarlo. (gcanc)

Avevo sedici anni nel 1978. Viaggiavo per Milano col mio vespino e i “problemi” che dovevo affrontare erano la scuola (come sfangarla), le ragazze (come attirarne l’attenzione), il rapporto con i genitori (mai così conflittuale), la politica (litigavo con tutti, ma nemico di nessuno), tutto sommato la vita di un normale ragazzino di quegli anni senza troppi pensieri. Finché un giorno non mi fermano i carabinieri a un posto di blocco. Da pochi giorni avevano rapito Aldo Moro (ci avevano mandato a casa da scuola due ore prima quel 16 marzo) e uno come me, su una Vespa del ’64 un po’ ammaccata, con i capelli lunghi, il giaccone di pelle scamosciata comprato usato alla fiera di Sinigaglia, non poteva non essere fermato. Naturalmente, come si faceva in questi casi, si assumeva l’aria più innocente e cordiale possibile, tipo “Socio del club Amici delle Forze dell’Ordine”, magari per evitare che ti frugassero a fondo nelle tasche dove per distrazione ti era finita una minima quantità di sostanza allora illegale e si cercava di risolvere la questione più in fretta possibile. Senonché, i carabinieri erano piuttosto nervosetti e al mio gesto di infilare la mano nella tasca interna del giaccone per estrarre i documenti mi sono ritrovato la canna del mitra tra le costole. Avevano paura di uno come me. A quel punto mi sono reso conto che il clima era cambiato, che la città viveva in uno stato d’assedio, che niente sarebbe stato come prima.
Ecco, questo episodio mi è tornato alla mente poche ore fa, riflettendo sui fatti di Parigi e su ciò che il terrorismo – non solo quello delle BR, perché c’era già stata Piazza Fontana, Brescia, l’Italicus, Peteano e poi Bologna due anni dopo – aveva perpetrato nella società: persino i carabinieri erano terrorizzati.
Ora, io ho avuto la fortuna di non vedere la guerra, sono nato in un periodo relativamente fortunato e in una parte di mondo relativamente fortunata, ci tengo alle mie abitudini e l’abitudine alla libertà di andare dove voglio, quando voglio e con chi voglio è quella che preferisco. Non voglio rinunciarvi. E se anche comprendo la disperazione di chi non è fortunato come me, che nasce e cresce in un posto del mondo in cui la violenza è il linguaggio quotidiano, dove le questioni si dirimono a colpi di pistola o di mitraglietta, andare a scuola, leggere un libro, ascoltare musica, godere di un’opera d’arte sembrano obiettivi irraggiungibili e il desiderio di fuggire si scontra con la difficoltà di abbandonare la propria terra, i propri cari, i sapori, i profumi, le abitudini quotidiane a cui si è affezionati e, non ultime, le difficoltà economiche per intraprendere un viaggio del quale non si conosce l’esito e perciò offro tutta la mia solidarietà, non concepisco che mi si possa impedire di vivere come voglio – una libertà per la quale milioni di persone hanno combattuto nello scorso secolo – in nome di un’entità metafisica, che si sarebbe manifestata in qualche maniera misteriosa e avrebbe dettato regole che qualcuno ha trascritto,  spesso in luoghi impervi, non si sa bene con quale cognizione di sintassi e punteggiatura e qualcun altro avrebbe letto e qualcun altro ancora avrebbe tradotto, interpretato e spiegato con parole sue ad altri in una catena di trasferimenti orali e scritti da perderci la testa. Di teorie sulla natura del mondo, dell’universo, della specie umana, ve ne sono di ogni tipo, dalle più divertenti alle più cupe, nessuna di queste garantita al 100%, perché teorie, appunto. Ma si da il caso che qualcuno abbia, invece, delle certezze e ne sarebbe talmente “certo” da non ammettere altra spiegazione. Quel che è peggio, purtroppo, è l’utilizzo che fa di queste teorie per fomentare la rabbia di chi si sente in credito con la vita e il mondo e trasformarla in odio verso chi ha avuto la fortuna di costruirsi un’esistenza ragionevolmente sostenibile. Chi fa questo, ne sono convinto, non crede in quelle teorie o, comunque, le usa strumentalmente, di fatto tradendole, mandando al massacro ragazzi, a volte bambini, per uccidere altri ragazzi e bambini che non hanno alcuna responsabilità né colpa, se non di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Non trovo nulla di sbagliato o riprovevole nel credo religioso, se esiste da quando è nata l’umanità, evidentemente si tratta di un’esigenza ineluttabile per cercare di dare un minimo di senso a questa tragicommedia che chiamiamo vita. Tuttavia mi piacerebbe che restasse un fatto privato di ognuno, anche perché la morte, quando arriva, ci trova soli e quello che c’è dopo lo sa solo lei. E state tranquilli, non ci rovinerà la sorpresa raccontandocelo prima.

imagesLa madre di tutti gli orrori per me è stato La Scala a Chiocciola (The Spiral Staircase, Robert Siodmak, 1946), visto da bambino per errore (i miei non sapevano di che film si trattasse), quando ancora avevo un sacro terrore del buio tanto che per raggiungere il bagno di casa in fondo al corridoio avrei acceso le luci dell’intero caseggiato, ma me la cavavo trattenendo il fiato e correndo quei dieci metri fino al bagno cercando di premere al volo l’interruttore della luce prima che qualche mostro mi afferrasse dal nero e mi portasse via con sé. Perché ve lo dico? Perché in seguito racconti, romanzi, film, fumetti dell’orrore hanno fatto parte del mio immaginario, dai più raffinati e immaginifici Stevenson, Poe, Lovecraft, Fisher, Corman, ai King, Lansdale, Cronenberg, Kubrick, Romero, Gordon, Yuzna, Creepy (Zio Tibia), senz’altro più realistici e inclini all’effettaccio splatter. Forse era un modo per esorcizzare la paura, per dimostrare a me stesso che ero adulto (anche a quattordici anni), per respingere e ridurre a effetto speciale quel mostro che si nascondeva sotto il letto e appena chiudevo gli occhi saltava fuori per aggredirmi.
Ora, però, un conto è la finzione scenica, un conto è la realtà.
Io amo il mio dentista. E anche la sua assistente, ma non per i motivi abbietti che pensate. Li amo perché hanno riserve inesauribili di anestetico che mi mettono a disposizione quando voglio. Non sono di quelli che “massì, sentirà un po’ di dolore, ma non si preoccupi, è sopportabile e dura poco”. No, loro ti chiedono “senti male?. Ti faccio un’iniezione? E prima dell’iniezione un batuffolino intriso di lidocaina sulla gengiva così non senti nemmeno l’ago che entra?” Ecco perché li amo. Riusciamo persino a inscenare la gag de “Il Maratoneta” con lui nella parte di Laurence Olivier e io in quella di Dustin Hoffman, tanto ci divertiamo. Solo che l’ultima volta prima di recarmi da quell’allegro burlone ho visto uno stupido film horror giapponese. L’immaginario orrorifico dei giapponesi consta di elementi analoghi ai nostri, sangue, dolore, spiriti maligni, fantasmi, ma con l’aggiunta dei capelli, lunghi, lunghissimi, neri e folti, che si diramano ovunque, nelle stanze da letto e nei bagni, calano dal soffitto, emergono dagli scarichi, invadono gli ambienti, a volte soffocano e strangolano le vittime, altre basta la loro vista per causare arresti cardiaci, colpi apoplettici, spaventi mortali e volti contorti in smorfie grottesche. Altro elemento spesso presente in queste pellicole è l’ago. Non perché le geishe assassine amino il ricamo a punto croce e nemmeno le virtù terapeutiche dell’ago-puntura (tradizione più cinese che nipponica) ma, piuttosto, pare sia apprezzato come strumento di tortura, infilato sotto le unghie, per cucire le palpebre o tenerle inesorabilmente aperte (a questo aveva pensato anche Dario Argento in Opera, già molti anni fa), piantato nelle gengive…
Già, le gengive. Ecco la lezione. Quell’immagine mi ha perseguitato per tutta la seduta. Nonostante il dolore fosse pressoché inesistente, ogni volta che il gaio odontoiatra mi infilava un attrezzo in bocca, la mia mente tornava a quella sciagurata e alle sue gengive traforate e sanguinanti. Non solo: in sala d’aspetto ho malauguratamente sfogliato una rivista per dentisti pubblicata da un mio ex editore, uno di quelli che mi hanno fatto passare la voglia di scrivere per i giornali dopo venticinque anni di pagine al piombo. Queste riviste sono per dentisti, appunto, non per i loro pazienti che non sono abituati a guardare così a fondo nelle bocche altrui, soprattutto se hanno bisogno di un dentista: sangue, polpa, carie, ascessi, granulomi e tutto il catalogo patologico sono illustrati a colori nel dettaglio e corredano articoli tecnici di grande interesse per un addetto ai lavori, ma di enorme ribrezzo per il profano. Seconda lezione: in sala d’aspetto farsi gli affari propri, abbiamo lo smartphone apposta per distrarci e non pensare. Magari andate sul blog bonsaisuicidi, dove trovate sempre letture interessanti e d’evasione. 🙂

Oggi sono arrabbiato. Ieri ero arrabbiato e lo sono ancora oggi. Per ragioni personali e non solo. Sono cresciuto in un’epoca in cui il sabato pomeriggio i  miei genitori non mi facevano uscire, per paura che finissi coinvolto negli scontri di piazza che in zona Città Studi erano frequenti e violenti. Io lo ritenevo un sopruso da parte loro, avevo dodici-tredici anni, mentre in realtà era un modo per proteggermi. Avrei dovuto prendermela con chi gli scontri li provocava, li aizzava, li infiltrava, ma provavo una certa simpatia istintiva per chi contestava l’ordine costituito, la divisa, la disciplina imposta, senza nemmeno distinguere tra regole di convivenza civile, diritto alla protesta e abuso di potere. In mezzo alla nebbia di Milano di quel tempo e al fumo dei lacrimogeni non era semplice per un ragazzino, metaforicamente parlando e non solo, capire cosa stesse succedendo. E persino oggi, che il fumo se ne è andato e la nebbia non c’è più, a distanza di quarant’anni, è difficile separare il bene dal male.
Ieri ho provato una sensazione molto simile, ma più consapevole. Ero quasi pronto per uscire e andare a godermi un’interessante conferenza e poi un bel concerto di Gustav Mahler, quando mi telefonano e mi dicono di accendere la tv, perché Milano era preda dei devastatori. In un primo momento mi sono chiesto in quale film fosse possibile una cosa del genere, ma dato che ho poca dimestichezza col decoder, mi indicano un canale preciso in cui si sta trasmettendo la cronaca del saccheggio minuto per minuto. In effetti, appena acceso il televisore, la scena mi è familiare: auto in fiamme, vetrine sfondate, nuvole di gas lacrimogeni e, novità rispetto a quarant’anni fa, fumogeni colorati, che, ho scoperto, servono a coprire le manovre tattiche dei manifestanti. È impressionante, non sembra reale, pare un film su quegli anni e invece è l’evento in diretta. Purtroppo alcuni cronisti non conoscono la città e indicano strade a caso, come via Cairoli, che a Milano non esiste, ma probabilmente confusa con via Carducci e predicono assurdità del tipo “i manifestanti giunti in via Mario Pagano probabilmente si stanno dirigendo verso il sito dell’Expo in zona fiera, non sapendo che il polo fieristico cittadino  nulla ha a che fare con l’Expo che è a dieci chilometri di distanza nell’area di Rho-Pero, difficilmente raggiungibile a piedi. Ma, a parte la cronaca parlata, sono le immagini a spiegare il dramma. E monta un certo nervosismo, perché col tempo sono diventato intollerante rispetto al sopruso, da qualunque parte venga. Nessuno può limitare la mia libertà finché vivo in un Paese democratico e se voglio uscire di casa non c’è manifestazione che me lo possa impedire o poliziotto che me lo possa vietare. Eppure, quello che temevo potesse accadere, puntualmente accade: appena pronuncio la fatidica frase “allora usciamo?” la mia compagna risponde “non vorrai uscire con quello che sta succedendo, vero?”. Ecco, ero tornato il ragazzino di quarant’anni fa che non può uscire di casa il sabato pomeriggio (era venerdì, ma fa niente). Ora, avrei potuto discutere e convincerla che ormai era tutto finto, che quelli vestiti di nero si erano spogliati di cappucci, maschere antigas, avevano deposto bastoni e mazze e si erano dileguati, ma non è questo il punto. Erano riusciti a spaventare le persone ed è questo che non tollero, perché l’ho già visto: è una tecnica del potere, quello istituzionale, terrorizzare la gente e costringerla a casa, perché così la controlli meglio, le spieghi cosa succede fuori e le impedisci di verificare di persona. Svuoti le strade e ne diventi il padrone.
No, non si può tornare a questo, perché la strada è la vita, perché la vita si svolge fuori dall’uscio, perché fuori dall’uscio incontri le altre persone, con le quali puoi manifestare il tuo pensiero affinché altri lo conoscano, ma senza imporglielo, ma semplicemente proponendolo ed è ciò che si sta tentando di impedire.
Una volta i cortei avevano un servizio d’ordine auto-organizzato, erano famosi i Katanga, che impediva fuoriuscite e infiltrazioni. Certo, a volte era lo stesso servizio d’ordine responsabile dei disordini, ma almeno erano chiare le responsabilità. Com’è possibile che oggi un corteo che si dice pacifico e gioioso, possa essere infiltrato da centinaia di “guerriglieri” che devastano il centro di MIlano o poi si mescolino di nuovo tra la gente senza che nessuno reagisca? Chi organizza il corteo si deve prendere la responsabilità di respingere queste infiltrazioni, altrimenti ne è connivente, anche solo ideologicamente o per omissione di sorveglianza.
Mi costa sforzo dirlo, ma credo che le forze dell’ordine nella circostanza abbiano optato per il male minore non avendo attaccato direttamente i devastatori (avrebbero rischiato di trasformare Milano in un campo di battaglia e rischiando di coinvolgere anche chi non c’entrava nulla), ma credo anche che un lavoro di prevenzione non sia stato fatto correttamente. Questa gente è organizzata, dotata di attrezzatura acquisita da qualche parte (mazze, fumogeni, maschere antigas), sapevano cosa fare, come farlo e come darsela a gambe una volta compiuto lo scempio. Ci sono delle menti che progettano, studiano il terreno e delineano percorsi, luoghi di scontro e vie di fuga. Si tengono in contato tra loro e sanno come confondersi con la folla una volta portata a termine la missione.
La mia rabbia, come dicevo all’inizio, è personale, ma la sento anche collettiva ed è quella di chi non vuole tornare indietro a tempi troppo bui per essere ricordati con piacere e che guarda con preoccupazione la nuvola scura che si sta avvicinando, all’interno della quale si muovono persone incappucciate, mascherate e vestite di nero.

Giulio Cancelliere

Yaaaaahhhhhh!!!!A volte mi sembra di scrivere da sempre e, invece, sono meno di trent’anni. Professionalmente ho usato il linguaggio parlato molto più di quello scritto, anche se da qualche tempo le modalità si sono invertite in termini quantitativi. E sono solo dieci anni che scrivo per piacere personale. Quest’ultima fase è iniziata quando la parola scritta sembrava stesse tornando in auge dopo due decenni di video, immagine, apparenza, body language, talk show. Il blog mi ha spinto a mettere “nero su bianco” quel che penso della realtà che mi circonda, mi contiene e mi permea. Si stava di nuovo trovando il tempo e il silenzio interiore per soffermarsi a leggere. Ricordo post extra-large (non proprio i miei) di amici e colleghi sui quali poi si dibatteva per pomeriggi interi con “commenti” tanto circostanziati, scherzosi, puntuti, talvolta deliranti, da innescare a loro volta discussioni accese che partivano per la tangente del post principale. C’erano anche allora i cosiddetti “troll”, provocatori che agivano appositamente per far degenerare la discussione e quanti sforzi si facevano per rintuzzarne i tentativi, ignorarli, isolarli, persino dialogarci e tentare una conversazione civile. Non sempre con successo, ma spesso sì. E allora era una soddisfazione essere riusciti a coinvolgere una specie di mina vagante difficile da maneggiare, sempre sul punto di esplodere, ma anche stuzzicante per il punto di vista così distante che recava con sé. In questo era un maestro il mai dimenticato Luciano Comida, dal quale ho imparato tanto su come gestire certe situazioni, anche in pubblico. Ma era sempre la parola che prevaleva, la ragione, la riflessione, il confronto. È durato poco. Cinque, sei anni. Poi tutto si è trasferito sul social network, il mezzo con cui, volente o nolente, abbiamo dovuto prendere confidenza un po’ tutti. Ricordo quando mi iscrissi a FB, ormai quattro o cinque anni fa, un collega mi disse: “ah, ti sei iscritto al sito di Zuckerberg proprio ora che tutti se ne stanno andando.” Non so da cosa l’avesse dedotto, ma forse aveva ragione lui, visto che ha fatto più carriera di me, anche se FB esiste ancora. Non sempre avere torto è negativo, anzi, sparar cazzate spesso paga.
Con il “social” tutto è cambiato: ciò che con il blog, nonostante il video, tornava ad assomigliare a un articolo, a un breve saggio o a un elzeviro da terza pagina (per i più bravi), sul nuovo medium subiva una violenta contrazione e si riduceva all’essenzialità di una battuta, un motto, uno slogan. Non sono contrario alla sintesi (come potrei con il lavoro che ho fatto e ancora vorrei fare, ma alle mie condizioni?), ma la complessità del mondo non può ridursi a 140 caratteri, non è naturale, è illogico, anti-storico, stupido. Se poi il post vuole assurgere al ruolo di notizia, notiamo come sia l’iperbole la forma vincente: in altre parole, più la spari grossa e maggiore sarà l’impatto e la credibilità. Ci sono siti, travestiti da giornali, che prosperano sulla moltiplicazione delle loro “notizie” grazie agli utenti di FB, i quali, in buona fede o meno, “condividono” questa melma irritante e corrosiva, buona solo per ingenerare rabbia, esasperazione, violenza, coltivare l’ignoranza e diffondere l’inganno.
Non si dialoga più, il confronto è una perdita di tempo, ragionare è un segno di debolezza e non ci si può permettere di essere deboli quando si combatte. Non sono pochi coloro che si sentono in guerra in questo momento, incoraggiati anche dai messaggi che giungono dalla cosiddetta classe dirigente, totalmente irresponsabile e senza dignità.
E allora, perché non sottrarsi al gioco al massacro, perché contribuire alla popolarità del sistema, perché partecipare e poi criticare? Perché non vivo in una grotta in mezzo alle montagne o in un atollo della Polinesia, ho necessità di restare in contatto con il mondo, anche se non sono l’animale più sociale che esista, ho bisogno di guardarmi intorno e capire cosa succede, ho l’esigenza di interpretare la realtà, leggere gli altri per comprendere chi sono io. Il giorno che sarò sazio di tutto questo sarà l’ultimo.

[immagini.4ever.eu] la morte, gesto 162352C’è qualcosa di inquietante e di triste nel desiderio di documentare la morte con immagini e suoni. Non sto parlando di film o cronaca telegiornalistica, ma dell’abitudine, ormai diffusa, di riprendere incidenti e catastrofi con telecamere o, più spesso e peggio, con telefonini e quant’altro sia a portata di mano al momento. Si tratta quasi sempre di persone comuni o, comunque, non di addetti ai lavori. È accaduto anche recentemente che disgraziati vittime di incidenti stradali, mentre i soccorritori si davano da fare per rianimarli e strapparli alla morte o a un destino da gravi invalidi, divenissero soggetto di altrettanto sciagurati operatori dilettanti, impegnati più a cercare l’inquadratura giusta, a individuare il dettaglio da mostrare orgogliosamente agli amici durante una serata spensierata, che a dare una mano o a solidarizzare con familiari o conoscenti delle vittime. Mi chiedo: perché?. Qual è il gusto del conservare in tasca il dolore e la sofferenza? Perversione e piacere del macabro? E poi: davvero qualcuno organizza serate con proiezione dei migliori incidenti ripresi sulla Milano-Genova o sulla Salerno-Reggio Calabria? Sarà che viviamo nell’era dell’immagine dove tutto ciò che appare diventa spettacolo e quindi degno di essere ripreso e documentato? È per questo che si applaude ai funerali, come a teatro, come se la morte fosse uno show con il protagonista che nemmeno può ringraziare inchinandosi?  Può darsi, ma non ne sono così convinto. Ci dev’essere qualcosa d’altro e di più profondo per essere così diffuso e radicato. Non voglio fare psicologia d’accatto, ma quello che mi pare di percepire è un sano e naturale terrore della morte e del dolore che viene gestito in un modo nuovo, diverso, moderno, quasi come se poterlo documentare e tenerlo dentro la telecamera  lo riducesse e lo rendesse meno spaventoso, non dico rassicurante, ma più maneggevole. Non dimentichiamo che si tratta del dolore altrui. A chi verrebbe in mente, infatti, di riprendere l’incidente del proprio figlio, le ferite di una moglie, la morte di un genitore? È anche questo che ci rende meno inquietante l’approccio con una realtà che, prima o poi, a tutti sarà dato di incontrare? L’annuncio di quello che sarà, un’anticipazione del programma, una sorta di trailer dell’assenza in modo da arrivare a quel momento preparati e consapevoli? Ci sarebbe poco da scherzare, ma non posso fare a meno di notare gli aspetti grotteschi di questa abitudine, che si associa a quella delle migliaia di fotografie che continuiamo a scattare e pubblicare in rete, sui social network.  Cos’ha a che fare con la morte questo singolare fenomeno? Consapevoli o no, stiamo documentando la nostra vita quotidiana rendendola pubblica a livello globale – come siamo, cosa mangiamo, come vestiamo quando siamo vestiti, con chi viviamo, dove lavoriamo, dove trascorriamo le vacanze, con chi, cosa ci piace e cosa detestiamo – e pretendiamo, contemporaneamente, di tutelare la nostra privacy. Sembriamo dei pazzi. Ricordo di avere visto da ragazzino delle riviste composte da fotografie che i lettori si scattavano e inviavano in redazione, ma erano foto pornografiche realizzate da maniaci sessuali esibizionisti che mostravano se stessi in pose oscene allo scopo di attirare l’attenzione di altri come loro. E noi? Perché continuiamo ad autofotografarci e a mostrarci a tutti? Cosa vorremmo dimostrare o esibire? Chi siamo o, più probabilmente, chi vorremmo essere? E non è triste tutto questo? Forse più ancora della morte, che, in fondo, una volta passata e averci porta in vacanza con sé, non torna più a farci paura.
Ancora: forse riprendere e riprenderci ci illude di non dimenticare e non essere dimenticati. La memoria è preziosa, è la nostra essenza, noi siamo la nostra memoria, i nostri ricordi, viviamo di quelli e per quelli, che abbiamo acquisito e acquisiremo. Cosa saremmo senza? Nulla, la spersonalizzazione totale, i familiari dei malati di Alzheimer lo sanno bene. La memoria è dentro di noi, ma anche sulla nostra pelle, i segni del tempo sono lì a ricordarcelo e forse è per ciò che li tramandiamo fotograficamente, un tempo con parsimonia, fino all’ultima foto sotto la data di nascita e morte, oggi con molta più generosità, fino allo sperpero. A pensarci bene, la nostra vita è come un lungo concerto: un’ouverture e un finale con un ampio movimento centrale in cui si alternano cadenze e momenti orchestrali. Ma se la testimonianza fotografica è talvolta giustificata, l’applauso finale spesso non è meritato. E di bis non se ne parla.