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Credo che mai come oggi si sia avuta la sensazione di quanto piccolo sia il pianeta. Ovunque vai, il pericolo contagio è lo spettro che ti si agita davanti. Nemmeno l’emisfero australe, come pareva in un primo momento, è esente da questo “cigno nero” piombato in mezzo all’umanità. Siamo prigionieri della Terra senza un altrove immaginabile e raggiungibile. Del resto, chiusi in casa, con le poche opportunità concesse dalle ordinanze per uscire a prendere una boccata d’aria, si spera, non infetta, c’è poco da immaginare. Anzi no, l’immaginazione è quella che ancora salva la nostra fragile sanità mentale.
Mi rendo conto che non tutti abbiano un alloggio dove rifugiarsi e ancora meno ne hanno uno confortevole dove esercitare la fantasia e farsi compagnia con musica, libri, cinema e arte. Alcuni di questi sono coloro che escono per strada e passeggiano senza meta, solo per evadere da quella squallida cella di solitudine che li ospita per buona parte della giornata. Li vedi camminare lenti, mani intrecciate dietro la schiena, fissare le saracinesche chiuse, i negozi serrati, le strade semivuote e quando scorgono una vetrina animata si fermano a osservare quel che succede dentro, per accertarsi che ci sia ancora attività, gente, vita.
E, a proposito: c’è chi dice che domani niente sarà come prima, che la vita cambierà per tutti. Non so di preciso cosa si intenda per cambiamento: saremo meno, questo è certo, qualcuno mancherà all’appello e molti tra i guariti si riprenderanno a fatica dallo spavento, ma siamo abituati a sentire la mancanza delle cose solo quando ci mancano davvero, perciò, una volta riacquistata la libertà di movimento e scongiurato il rischio di contagio, non impiegheremo molto a riprendere la vita di prima, nel bene e nel male. Tra qualche decennio ricorderemo gli obblighi di “stare a casa” come facciamo oggi con l’austerity petrolifera degli anni ’70, quando si circolava a targhe alterne o non si circolava affatto in auto e i venditori di biciclette si comprarono la seconda casa al mare. Magari rideremo delle mascherine fatte in casa con la carta da forno o le salviette umidificate, il mercato nero dell’amuchina e l’assalto ai supermercati.
Si nasconde una lezione in tutto questo? Forse ci farà pensare alla nostra fragilità, alla nostra dipendenza dalla Natura in senso lato, al fatto che, nonostante il progresso tecnologico, la conoscenza, il pensiero scientifico, che sicuramente ci salverà, basta un organismo microscopico per mettere in crisi tutto il nostro sistema globale.
Ho paura? No, non mi pare, mi sono solo accorto che quando incontro qualcuno per strada e mi pare si stia avvicinando troppo cerco di allontanarmi o girare la faccia dalla parte opposta, ma istintivamente, senza provare particolari brividi. Quel che mi ha impressionato, invece, sono state le testimonianze di chi ha visto malati in debito d’aria che si avvinghiavano letteralmente alle bombole d’ossigeno, come naufraghi al relitto galleggiante in mezzo al mare. Alcune immagini hanno risvegliato in me un ricordo di oltre dieci anni fa: ho visto mio padre andarsene dentro uno di quei caschi di plastica trasparente. Affannato mi chiedeva da bere, ma gli era vietato assumere liquidi per via di quelli che gli stavano annegando i polmoni. Qualche volta ho pensato che sia morto di sete e non per insufficienza respiratoria.
Meglio una fine orribile che un orrore senza fine, si dice, ma anche un sano istinto di sopravvivenza e una robusta dose di prudenza ci possono far superare questa strana prova. Ci vorrà tempo, settimane, mesi, a essere ottimisti, l’estate sarà tutta diversa. Speriamo che piova spesso. Almeno avremo l’impressione di non avere sprecato le vacanze.

Ciao Ros

Ciao amici, sto usando il blog dell’umano per salutarvi. È arrivato il momento di lasciarci. In questi ultimi giorni non sono stato bene e il mio cuore affaticato mi sta suggerendo che il tempo sta per scadere. Noi gatti lo sappiamo quando è il momento di fermarci. Mi dicono che stavo diventando maggiorenne, ma non capisco bene cosa voglia dire. Se si tratta di una tappa importante della vita in cui si acquisiscono diritti e competenze, sarà vero forse per gli umani, che vanno piano e se la prendono comoda col tempo. Personalmente penso di avere vissuto abbastanza a lungo, di averne viste e, soprattutto, fatte tante. Prima con mio fratello Attila e poi da solo. L’umano mi diceva di tutto per quello che combinavo: la definizione più gentile che usava era “associazione a delinquere”. Ma so benissimo che pure lui si divertiva, tanto che ha indebitamente utilizzato la mia immagine per ben due libri. Ma l’ho perdonato, anche perché mi ha donato una certa popolarità e tanti suoi simili si sono divertiti leggendoli. È per questo che ho deciso di congedarmi da voi con queste righe. Quando le leggerete io me ne sarò già andato. Non credo che potrò farmi sentire ancora, ma non si sa mai. In ogni caso vorrei dire ai colleghi pelosi che nella casa degli umani c’è posto e i bipedi glabri non sono male: cibo, coccole, posti caldi e morbidi non mancano mai. Soprattutto, si impara presto come ottenerli sempre. Addio amici, grazie per avermi voluto bene. Anch’io ho imparato ad apprezzarvi. Prrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr…

Rapsodia in nero rImprovvisamente sentii che stavo cadendo dentro me stesso. Risucchiato da una forza che mi attraeva alle spalle, ma altrettanto, avvertivo un’altra forza che mi tratteneva sul posto. Questa contrapposizione di forze produsse l’effetto di sbloccare la mia mente. Sentii chiaramente il rumore di un meccanismo che scattava, poi immaginai un ticchettio di ingranaggi di tutte le fogge, tondi, cilindrici, conici, a mezza luna, che ruotavano, i denti che si incastravano perfettamente negli appositi spazi, molle e bilancieri che ondeggiavano ritmicamente, li vedevo all’interno di un grande, gigantesco orologio. Si muovevano, all’inizio pesantemente, poi sempre più veloci e avvertii alla testa un dolore lancinante, come se avessi qualcosa dentro che scavava a fondo. In realtà non stava scavando, ma uscendo dalla mia faccia. Da quei grossi buchi provocati dalle pallottole che mi avevano ucciso. Vidi chiaramente la prospettiva dei proiettili uscire dalla carne e rientrare nella canna della pistola dalla quale erano stati sparati, come la via di fuga di un quadro rinascimentale. Vidi la maschera grottesca del volto sconvolto del bandito. Rividi me stesso quella tragica mattina mentre entravo in banca, mentre mi svegliavo, la sera precedente, mentre festeggiavo con qualche amico l’inizio delle vacanze e poi sempre più veloce si riavvolse all’indietro il film della mia vita fino all’infanzia e oltre.

Si dice spesso come sarebbe bello poter tornare indietro e rivedere ciò che abbiamo fatto e magari correggere gli errori, aggiustare le cose venute male, rimediare, modificare. Be’, non è bello, è nauseante, doloroso, orribile. La vita è scandita da eventi importanti, quelli che ci piace ricordare, belli o brutti che siano, ma che danno carattere all’esistenza. Purtroppo sono la minima parte di un tempo straordinariamente lungo di insignificanza oceanica. Un’attesa infinita. È come essere al gate di un aeroporto, aspettando un velivolo in ritardo, che non si sa in quale cielo si sia perso col suo carico di passeggeri ed equipaggio. Quando arriva, finalmente, saliamo e ci sentiamo destinati a uno scopo, ma, una volta scesi, ecco di nuovo la sala d’attesa, l’incertezza di avere il biglietto giusto, della corretta destinazione, di ciò che troveremo e di ciò che stiamo lasciando.

Aspettare è il nostro destino principale. E intanto, cerchiamo la nostra prossima meta. Il viaggio, in fondo, pare essere il vero senso della vita, analizzata col senno di poi, il tragitto da una destinazione all’altra alla ricerca di quella poca felicità che ci è concessa, così effimera ed eterea che evapora in un soffio e non sembra ripagare la fatica fatta per conseguirla. Per questo, perennemente insoddisfatti, si riparte per l’indirizzo successivo. Nel frattempo mi rivedevo condurre una vita anonima e incolore, tra lavoro, qualche amicizia superficiale, buoni propositi naufragati nella quotidianità spicciola e la colpevole rassegnazione.In fondo solo quattro episodi avevano realmente dato colore al mio viaggio durato trentasette anni: la nascita, la fuga di mio padre, la morte di Harsha e la mia. Nient’altro. Trentasette anni scanditi da ouverture, finale e due interludi, in una tragica opera prima e ultima, di cui nessuno avrebbe ricordato debutto, repliche e recensioni. E ora qui, in questo limbo aspettando la meta finale, senza che qualcuno annunciasse ritardi, disguidi, disservizi, tempi d’attesa ed eventuali risarcimenti. (da Rapsodia In Nero)

155250_102371513168475_1591957_nSe fossi superstizioso dovrei cancellare dal calendario i mesi di gennaio e febbraio. Negli ultimi sei anni le cose peggiori mi sono capitate in questa stagione. Eppure no, non credo in momenti migliori o peggiori, congiunzioni astrali, cattivi segni, cicli positivi o negativi, ruote di una fortuna cieca o ipovedente, destino baro e crudele od onesto e magnanimo, sorte matrigna o fato perverso. La vita è questo: un percorso, una strada su cui camminare che si materializza davanti a noi, passo dopo passo come un ponte gettato sul vuoto. A volte si aprono improvvisamente delle voragini e vi precipitiamo dentro, finché qualcosa o qualcuno non arresta la nostra caduta. Allora ci rialziamo doloranti, ci massaggiamo le tumefazioni, ricuciamo le ferite e riprendiamo il cammino, prima zoppicando, poi con più sicurezza fino alla prossima rovinosa caduta. A seconda del numero di buche o dei danni subiti parliamo di sorte benigna o malvagia, mentre in realtà non è nulla di tutto ciò, ma un succedersi di eventi casuali collegati solo da un processo di causa ed effetto che origina da luoghi e tempi di impossibile rintracciabilità. Eppure da secoli speculiamo su trame scritte da entità misteriose e onnipotenti su cui scaricare le responsabilità per le nostre sventure. È più probabile che sia tutto frutto delle nostre azioni che viaggiano nel tempo e nello spazio e, in qualche maniera ci vengono restituite come una specie di “effetto farfalla” circolare, un karma quasi istantaneo, che si esercita nell’unica vita che ci è concessa. Ma anche queste sono vuote speculazioni che non portano a destinazione. Gli animali sembrano non badarci troppo e vivono meglio: meno filosofia e più senso pratico. E quando ci salutano, perché la loro strada è giunta al termine, è come se ci ringraziassero per la compagnia e ci augurassero buon proseguimento del viaggio. Ci voltiamo a guardarli, mentre ci allontaniamo, e sono ancora lì che ci salutano finché non diventano un puntino all’orizzonte e scompaiono. È come la perdita di un amico, la stretta al cuore è forte e dolorosa. Ma a quel punto affiora qualcosa a lenire il male ed è il piacere di avere condiviso il loro affetto incondizionato e la loro spensieratezza che a volte ci ha contagiato e ci ha fatto provare una leggerezza tanto simile alla felicità. Addio Attila.

Da lunedì mattina sono rimasto quasi isolato dal mondo. Se non fosse stato per il cellulare non avrei potuto comunicare col resto dell’universo, perché la rete mi aveva lasciato. Era già successo all’inizio dell’anno, ma un bravo tecnico di Tiscali era riuscito, in qualche decina di minuti, tra attesa e verifica, a ripristinare la rete, che gestisce anche i telefoni fissi (ne ho due). Lunedì, invece, il “bravo” tecnico di Tiscali mi comunicava che effettivamente la rete era down e avrebbero fatto una verifica in un periodo tra le 24 e le 96 ore. 96 ore – dico io – sono un tempo lunghissimo. No – risponde lui – sono un tempo ragionevole se sapesse come funziona l’ADSL, sono migliaia di connessioni da verificare. Iniziava così un tira e molla di tesi e contro-tesi, io ad attaccare, lui a difendere l’azienda, che, ad un certo punto, ho interrotto pensando che quelle telefonate sono spesso registrate dalla società e obbligano il tecnico a parlare in un certo modo sapendo di essere controllato. Inoltre, era al centro della vertenza sindacale Omnia, la società alla quale Tiscali aveva esternalizzato l’assistenza e che ora stava recuperando internamente. Insomma, abbozzavo e speravo che i tempi fossero ragionevoli. Tra l’altro cominciavo ad avvertire i sintomi dell’influenza che mi stava saltando addosso (fosse stata almeno thailandese avrei immaginato un massaggio rilassante) e mi avrebbe costretto a letto fino a stamattina. Mercoledì, miracolosamente, arrivavano i tecnici per informarmi del decesso del mio modem e della sua sostituzione entro martedì prossimo. Senza la forza di reagire elevavo una prece per il de cuius e attendevo con fiducia. Nel frattempo trovavo la forza di fare un tentativo con un modem Alice ereditato da mio fratello, ma risultava vano, perché, come mi informava mio nipote tredicenne, ingegnere informatico di famiglia,  i modem forniti dai provider funzionano solo con quel provider. Stamattina la lieta sorpresa e l’arrivo del nuovo modem, vivissimo, lucido e scattante, con ben quattro giorni d’anticipo rispetto ai tempi previsti. Un complimento grato a Tiscali, per l’efficienza e la comprensione verso i suoi clienti.

Nel frattempo, però, ho trascorso quattro giorni abbastanza particolari, tentando di sbobinare una lunga intervista tra uno starnuto e un accesso di tosse, senza quasi mangiare per la nausea e un cerchio alla testa permanente. Di leggere non se ne parlava, nemmeno a letto. Tra l’altro mi sto infliggendo “La Città della Gioia” di Dominique LaPierre, praticamente un giro all’inferno degli slum di Calcutta, che non solleva troppo lo spirito. Allora, per completare il quadro tragico, ma senza stringere ulteriormente la morsa che mi premeva tempie e nuca, mi sono addentrato nelle vicende di Six Feet Under, la serie televisiva ideata da Alan Ball attorno alla famiglia Fischer, che gestisce a Los Angeles una impresa di onoranze funebri. Italia Uno ne aveva trasmesso le prime due stagioni ad ora molto tarda, un po’ per il contesto “nero”, un po’ per le connotazioni (omo)sessuali molto insistenti, soprattutto dalla terza stagione in poi. La famiglia è composta dal padre, che muore nella prima puntata, ma ri-compare come coscienza critica in ogni momento; la moglie vedova, che cerca di motivarsi attraverso relazioni bizzarre e corsi di autocoscienza; un figlio maggiore, belloccio,ex ribelle, immaturo, decisamente etero, sessualmente attivissimo, piuttosto abile nell’impegolarsi con donne problematiche; un secondo figlio decisamente omo, coinvolto in una relazione abbastanza tempestosa con un poliziotto nero; una terza figlia adolescente dall’identità sessuale incerta, che, a sua volta, resta incinta per colpa di un ragazzo sessualmente più incerto di lei e finisce per tentare un rapporto con Mena Suvari (quella di American Beauty), ma senza grossi esiti. Tutt’attorno, l’azienda familiare e i cadaveri che arrivano in laboratorio per l’imbalsamazione – l’esperto è un giovane immigrato messicano, che diventa socio grazie all’eredità di una vicina di casa – il rapporto coi dolenti, le differenti ritualità a seconda della religione professata, le riflessioni su vita e morte, elaborazione del dolore, senso dell’esistenza e così via, niente di troppo complicato – è un telefilm – ma abbastanza per coinvolgere lo spettatore non particolarmente impressionabile, anche se le cannule che aspirano il sangue e riempiono la salma di formalina possono creare qualche problema le prime volte. Devo dire che le  storie intricate dei protagonisti nelle ultime stagioni  (sono cinque in tutto e sono arrivato a metà della quarta) prendono eccessivamente il sopravvento su quanto suggerisce il contesto inizialmente, ma sono scritte abbastanza bene, restano credibili e si lasciano seguire, senza noia o momenti troppo statici. Se siete a letto per qualche malattia, possibilmente guaribile, è una visione che tiene compagnia. Interessante, nella terza stagione, la comparsa, tra i comprimari, di Kathy Bates, in un ruolo che, da principio, ricorda quello di Misery Non Deve Morire (chiaramente una citazione sottile), ma che si rivela infine tuttaltro. I titoli di testa sono geniali e accompagnati da un tema musicale straordinario scritto da Thomas Newman. Ah, naturalmente i “sei piedi” sono la profondità a cui si viene abitualmente sepolti.