Ciao amici, sto usando il blog dell’umano per salutarvi. È arrivato il momento di lasciarci. In questi ultimi giorni non sono stato bene e il mio cuore affaticato mi sta suggerendo che il tempo sta per scadere. Noi gatti lo sappiamo quando è il momento di fermarci. Mi dicono che stavo diventando maggiorenne, ma non capisco bene cosa voglia dire. Se si tratta di una tappa importante della vita in cui si acquisiscono diritti e competenze, sarà vero forse per gli umani, che vanno piano e se la prendono comoda col tempo. Personalmente penso di avere vissuto abbastanza a lungo, di averne viste e, soprattutto, fatte tante. Prima con mio fratello Attila e poi da solo. L’umano mi diceva di tutto per quello che combinavo: la definizione più gentile che usava era “associazione a delinquere”. Ma so benissimo che pure lui si divertiva, tanto che ha indebitamente utilizzato la mia immagine per ben due libri. Ma l’ho perdonato, anche perché mi ha donato una certa popolarità e tanti suoi simili si sono divertiti leggendoli. È per questo che ho deciso di congedarmi da voi con queste righe. Quando le leggerete io me ne sarò già andato. Non credo che potrò farmi sentire ancora, ma non si sa mai. In ogni caso vorrei dire ai colleghi pelosi che nella casa degli umani c’è posto e i bipedi glabri non sono male: cibo, coccole, posti caldi e morbidi non mancano mai. Soprattutto, si impara presto come ottenerli sempre. Addio amici, grazie per avermi voluto bene. Anch’io ho imparato ad apprezzarvi. Prrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr…
Category: Addii
Hai scelto una calda domenica di fine giugno per lasciarmi. Non so se avrei preferito un altro giorno o un altro mese. O un’altra temperatura. Ma così hai voluto. È stato uno strappo. L’ultimo. L’ho sentito chiaramente stamattina. Un rumore secco e poi il vuoto. A dire il vero, già da qualche tempo le cose non giravano più come prima, me lo facevi capire ogni volta con i tuoi lamenti, i tuoi scatti, i tuoi pianti. Avevamo persino chiesto consiglio a un consulente, uno di quelli che vengono a casa per verificare l’ambiente in cui vivi per farsi un’idea delle possibili soluzioni. Soldi buttati. Tanti, troppi. Ci aveva prospettato delle soluzioni che si sono rivelate temporanee, effimere, fallaci. C’era già ben poco da fare allora, ma ci abbiamo provato. Col risultato che la nostra storia si è trascinata stancamente ancora per alcuni mesi sino all’inevitabile fine di questa mattina. Del resto lo capisco, eri stanca, provata da questi anni di impegno continuo per tenere in piedi un rapporto ormai usurato. Avevi bisogno di mollare e l’hai fatto. È stato un lungo addio. Credevo, speravo, che sarebbe durata di più, cara Margherita, ma è andata così.
Però me ne sono già fatto una ragione. Sono uscito e l’ho vista. Me l’hanno presentata e mi è piaciuta subito: le misure perfette, con tutte le cose giuste al posto giusto. Anche il prezzo non è male. Me la consegnano giovedì pomeriggio. E si prendono pure Margherita e se la portano in discarica. Dove merita di finire. Una volta le lavatrici duravano di più.
Quando leggerete questo post io non ci sarò già più. Lo so, appare più tragico di quello che è veramente, ma tutte le cose finiscono, non c’è il permanente, è solo un’idea inventata dall’umanità per darsi un’illusione di eternità. Gli uomini si sono inventati l’immanente e il trascendente, il fisico e il metafisico, conscio e inconscio, carne e anima, aldiqua e aldilà, per avere delle porte da attraversare, confini da valicare, barriere da abbattere, qualcosa da fare nella vita, insomma, uno scopo da raggiungere. I viaggiatori viaggiano, gli esploratori esplorano, gli scalatori scalano, i navigatori navigano, gli speleologi speleologano, i ginecologi…uguale, ognuno si dà un nome e un obiettivo da raggiungere. Altrimenti la vita sarebbe una noia pazzesca oppure una gran confusione se gli scalatori navigassero o i navigatori speleologassero e i ginecologi…esplorassero…o forse no. Comunque, quello che ho fatto fino ad ora è stato parlare e scrivere, scrivere e parlare, leggere e studiare, studiare e leggere, fare domande, ascoltare risposte, elaborare concetti, “pettinarli”, come si dice oggi, perché non è detto che l’intervistato sappia esattamente quello che dice e come dirlo, e allora lo devi aiutare, usare un po’ di cosmetico per far apparire la sua espressione leggibile. È per quello che tanti intervistati non si riconoscono nelle parole scritte sul giornale. Se vuoi fare loro un dispetto, basta che riporti esattamente ciò che hanno detto, parola per parola, e qualcuno ogni tanto lo fa. Ma anche in questo caso ti dicono che non si riconoscono nelle parole stampate. In fondo è abbastanza ovvio: abbiamo una percezione soggettiva di noi stessi e ci vediamo con occhi dal visus limitato. Basti pensare a quando ascoltiamo per la prima volta la nostra voce registrata: uno choc, non pensavamo di essere così sgradevoli, avere quelle cadenze cantilenanti, essere così…ridicoli. Be’, ora basta, è il momento di chiudere, salutare tutti, lettori abituali e no, congedarsi con affetto, perché è stato bello, simpatico e divertente, ma, come dicevo prima, tutto ha un termine. Il biglietto è scaduto, l’ultimo spettacolo è stato proiettato e la parola The End è apparsa sullo schermo. L’inserviente ci sta cacciando, perché deve fare le pulizie e ha voglia di andarsene a casa anche lui. Togliamo il disturbo (non so perché improvvisamente sto usando la prima persona plurale, ma va bene, perché dà un senso di collettività, che al congedo ci sta) per le prossime due settimane (solo 15 giorni, cosa credevate??!!) in cui sono in vacanza. Au revoir!
Se fossi superstizioso dovrei cancellare dal calendario i mesi di gennaio e febbraio. Negli ultimi sei anni le cose peggiori mi sono capitate in questa stagione. Eppure no, non credo in momenti migliori o peggiori, congiunzioni astrali, cattivi segni, cicli positivi o negativi, ruote di una fortuna cieca o ipovedente, destino baro e crudele od onesto e magnanimo, sorte matrigna o fato perverso. La vita è questo: un percorso, una strada su cui camminare che si materializza davanti a noi, passo dopo passo come un ponte gettato sul vuoto. A volte si aprono improvvisamente delle voragini e vi precipitiamo dentro, finché qualcosa o qualcuno non arresta la nostra caduta. Allora ci rialziamo doloranti, ci massaggiamo le tumefazioni, ricuciamo le ferite e riprendiamo il cammino, prima zoppicando, poi con più sicurezza fino alla prossima rovinosa caduta. A seconda del numero di buche o dei danni subiti parliamo di sorte benigna o malvagia, mentre in realtà non è nulla di tutto ciò, ma un succedersi di eventi casuali collegati solo da un processo di causa ed effetto che origina da luoghi e tempi di impossibile rintracciabilità. Eppure da secoli speculiamo su trame scritte da entità misteriose e onnipotenti su cui scaricare le responsabilità per le nostre sventure. È più probabile che sia tutto frutto delle nostre azioni che viaggiano nel tempo e nello spazio e, in qualche maniera ci vengono restituite come una specie di “effetto farfalla” circolare, un karma quasi istantaneo, che si esercita nell’unica vita che ci è concessa. Ma anche queste sono vuote speculazioni che non portano a destinazione. Gli animali sembrano non badarci troppo e vivono meglio: meno filosofia e più senso pratico. E quando ci salutano, perché la loro strada è giunta al termine, è come se ci ringraziassero per la compagnia e ci augurassero buon proseguimento del viaggio. Ci voltiamo a guardarli, mentre ci allontaniamo, e sono ancora lì che ci salutano finché non diventano un puntino all’orizzonte e scompaiono. È come la perdita di un amico, la stretta al cuore è forte e dolorosa. Ma a quel punto affiora qualcosa a lenire il male ed è il piacere di avere condiviso il loro affetto incondizionato e la loro spensieratezza che a volte ci ha contagiato e ci ha fatto provare una leggerezza tanto simile alla felicità. Addio Attila.
Quando stamattina il prete ha detto che la morte non viene presa sul serio finché non ce la troviamo seduta accanto — non ha usato queste parole, ma il senso era analogo — ho pensato che deve avere una ben scarsa considerazione dei fedeli. In realtà è un argomento talmente serio e ingombrante, che non desideriamo occupi i nostri spazi, se non in forma lieve, gassosa, impalpabile. E poi, chi non ne ha mai avvertito la presenza in qualche maniera e non ha avuto modo di saggiarne la consistenza, lo spessore morale e intellettuale? La morte ti tocca, dà di gomito, ti afferra il braccio, è come quelle persone che quando ti parlano ti devono toccare per essere sicure di avere la tua attenzione, caso mai ti distraessi — ma chi si distrae davanti alla morte? — ma soprattutto la morte ti dice cose che scavano l’anima, che inizia a sanguinare e sanguinando cambia forma, dimensione e quando pensi che sia finita e decidi che “va bene, sto così, non è il massimo, ma posso farcela”, quella ricomincia a buttare sangue e non allora stai più “così” e devi rimettere in discussione ciò che hai deciso ti avrebbe dato un po’ di pace o almeno l’illusione di uno squarcio di quiete.
Non sono qui a dire che non è mai come te l’aspetti, soprattutto quando hai avuto anni per fartene un’idea, ma è il senso che continua a sfuggire. In fondo l’assenza è facile da capire, è molto vicina a una legge fisica: il vuoto, la mancanza di un corpo solido, che a sua volta contiene liquidi, gas, pensieri, siamo dei contenitori dalla forma singolare, anti-ergonomica, instabile, che solo a un pazzo potrebbe venire in mente di ideare. D’accordo, posso anche pensare che siamo il risultato di un esperimento riuscito male, quindi lasciato andare e che è proseguito da solo e si è espanso autonomamente a dismisura. Ma che senso siamo riusciti a dare a noi stessi, agli elementi principali di questo esperimento? Soprattutto: come spieghiamo il nostro abbandono dell’esperimento? A un certo punto gettiamo la spugna, ma tante volte vorremmo usare la spugna solo per asciugarci il sudore, rimetterci a combattere e mandare al tappeto l’avversario, anche mentre in ginocchio sul tappeto ci siamo noi. E quando invece invochiamo la spugna e quella non arriva? Quando le nostre braccia cadono abbandonate lungo il corpo e siamo tempestati dai colpi senza più la forza di difenderci, perché non c’è un regolamento, un codice sportivo, una federazione che imponga la fine dell’incontro e il k.o. tecnico? È il momento in cui desideriamo con tutte le nostre forze di perdere consistenza, in modo che tutti quei pugni ci possano attraversare senza incontrare resistenza, perché abbiamo finito di resistere, non ci opponiamo, abbandoniamo il ring, non ci interessa più diventare campioni, forse lo siamo stati, forse no, ma non ha più importanza. Vogliamo solo sbarazzarci di noi. E dopo sia quel che sia. Ma nemmeno quello ci è dato: il colpo di grazia che veniva concesso ai condannati a morte è rifiutato a chi in vita non ha commesso reati tanto gravi da meritare una sentenza estrema. È lo stesso paradosso per cui sbarazzarsi di se stessi è reato punito dalla legge se non si è sufficientemente bravi da portarlo fino in fondo. Dov’è il senso in tutto ciò? Va bene, l’ho già detto, posso anche sopportare l’idea del vuoto, del nulla, il nichilismo aiuta, ma il peso, il macigno che spingi su per la montagna senza scorgerne la cima e dal quale ti faresti volentieri schiacciare e frantumare, ma quello nemmeno si sogna di crollarti addosso, no, non ha senso. Consumarsi di fatica a novantasei anni è ingiusto, inumano, volgare, osceno e se qualcuno l’ha deciso dovrà renderne conto prima o poi se c’è giustizia, altrimenti c’è solo il Nulla. Ciao Mà.