Tag Archive: letteratura


foto-lucianoPronto? C’è Luciano?
No, te lo passo.
Co…?
Pronto?
Luciano?
Sì.
Non ho capito, mi hanno detto che non c’eri.

Infatti.
Infatti cosa?
Non ci sono.
Ma se ci parliamo.

Sì cosa?
Sì, ci parliamo.
Ma allora sei lì.
No.
E dove sei?
Mah…
Allora? Non cominciamo con la metafisica valdese.
Scherzavo, sono qui.
Qui dove?
Lì.
Qui o lì?
Qui e lì e là.
Adesso vengo lì e ti prendo a calci.
Lì dove? Io sono qui.
Insomma, ho letto che non c’eri e invece ci sei. Ho mandato anche un telegramma.
Ah sì, l’ho letto. Carino. Grazie, non c’era bisogno
Ma non era per te.
Come no? Si parlava di me.
Cioè, sì, il soggetto eri tu, ma non il destinatario.
Ma l’hai mandato a casa mia.
Sì, è vero, ma non dovevi leggerlo tu. Pensavo che non ci fossi.
Come sarebbe: “pensavo che non ci fossi”? E chi ci doveva essere?
Tatjana.
Ah, tu spedisci telegrammi a Tatjana quando non ci sono?
Ma nooooo, cos’hai capito, era un telegramma di condoglianze.
Perché è morto qualcuno?
Eeeehhhhh…sembrava di sì, ma sai, sono quelle notizie fasulle che girano all’improvviso e allungano la vita. Poi si ride, ci si rifila pacche sulle spalle, ci si dà una grattata ai cabasisi e tutto finisce lì.
E chi sarebbe il presunto defunto?
Ah, bella la rima….
Beh?
No….è che…
Qualcuno che conosco?
Più o meno. No sai, si dice anche che Jim Morrison sia ancora vivo e pure Presley e John Lennon, magari anche Hendrix e Janis Joplin. Sid Vicious, invece, direi di no. Chissà, magari Joey Ramone e Joe Strummer, da qualche parte…
Ma li vedo praticamente ogni giorno.
Anche Sid Vicious?
Eccome, anche se ha sempre quello sguardo un po’ perso e incazzoso, ma se lo prendi per il verso giusto è un allegro compagnone in fondo. Ha anche imparato a suonare il basso. Non proprio come Pastorius, ma è migliorato.
Vabbe’….allora stai bene. Sono contento.
Sì, sto bene, anche se mi gira un po’ la testa, sai, questo senso di leggerezza…mi devo abituare. È come quando hai l’influenza e stai a letto una settimana. Quando ti alzi, la sensazione è strana. Dopo un po’ passa.
Senti, ci siamo detti un sacco di volte che dovremmo vederci, fare qualcosa assieme: perché non ci organizziamo? Quando sei libero?
Io sono libero.
Sì, d’accordo, ma ci sono giorni in particolare in cui preferisci che ci vediamo?
Ti ripeto, io sono libero, ogni giorno, ogni ora, ogni istante.
Non ricominciamo con la filosofia. “Io sono libero” significa tutto e niente. Ci sentiamo liberi, ma poi ci accorgiamo di avere mille legami. Non ci sentiamo liberi, ma in realtà siamo prigionieri solo di noi stessi, delle nostre cattive abitudini, dei pregiudizi e dei muri che ci siamo costruiti attorno.
Ribadisco: io sono libero, comunque tu voglia intendere questa mia affermazione. Se anche tu sei libero possiamo combinare qualcosa. Credo che dipenda più da te che da me.
Ma sì, io ho giusto qualche impegno, ma non è che non me ne possa liberare, basta disdirlo…il mio senso di responsabilità è proporzionale a quello di una srl di minime dimensioni.
Allora vedi tu.
Dove ci vediamo? da me o da te?
Dove vuoi. Io, ti ho detto, sono qui, lì e là. Posso essere dove voglio. Sono libero.
Già. Sei libero. Senti, facciamo così. Io devo sistemare un po’ di cose qui, ci metterò un po’, diciamo una novantina d’anni, poi, però, ci vediamo sicuramente.
Perfetto ti aspetto. Nel frattempo mando Vicious a lezione da Jaco, così quando arrivi ti suona Teen Town come non l’hai mai sentita.
Non vedo l’ora…più o meno.
Allora ciao.
Ciao Luciano.

2525663Non conoscevo John Fante. Mi sono letto d’un fiato Le Storie di Arturo Bandini, i quattro romanzi scritti prevalentemente negli anni ’30 (l’ultimo, Sogni di Bunker Hill dettato nel ’79-80 alla moglie Joyce dal letto dove sarebbe morto di lì a poco reso ormai cieco e immobile dal diabete) che hanno per protagonista l’aspirante scrittore italo-americano e le sue avventure tra Colorado e California, alle prese con accessi di creatività sfolgorante e blocchi improvvisi di disperata aridità. Bandini è in buona parte alter-ego dell’autore, soprattutto nel rapporto con una Los Angeles multirazziale, tra comunità nere, giapponesi, filippine e messicane, spesso associate nel destino di discriminazione, umiliazione, sotto-occupazione, a quella italiana (dago) cui appartenevano sia Bandini, sia Fante. Non solo: Fante e Bandini si ritrovano entrambi a lavorare per Hollywood ricavandone soddisfazioni economiche e disappunto artistico. Non conosciamo il destino letterario del personaggio di finzione, che lasciamo all’ultima pagina di Sogni mentre tenta di recuperare la scrittura perduta, ma Fante non ottenne in vita il successo acquisito negli anni successivi alla sua morte, comunque non nella stessa misura, anche se Chiedi Alla Polvere (del 1939, come Furore, Il Giorno della Locusta, Il Grande Sonno e film come Via Col Vento, Il Mago di Oz, Ombre Rosse) è oggi considerato un classico, ma rimasto nell’oblìo per quarant’anni. Confesso che ho fatto fatica ad innamorarmi di Arturo Bandini: il primo romanzo Aspetta Primavera Bandini, mi era piaciuto abbastanza, come un Dickens americano, ma La Strada Per Los Angeles (cronologicamente precedente ad Aspetta Primavera, ma pubblicato solo nel 1985 dopo essere stato rifiutato da numerosi editori) mi ha quasi irritato per l’irrazionale atteggiamento del protagonista. In Chiedi Alla Povere  la narrazione torna in prima persona come in La Strada e il protagonista mantiene quel carattere intrattabile, volubile, lunatico, impulsivo, sentimentale, sognatore, stupidamente crudele e teneramente commovente che imbriglia il lettore alla pagina e lo costringe ad arrivare in fondo. Sogni di Bunker Hill, nonostante sia stato scritto/dettato quarant’anni dopo, riprende Bandini dove l‘avevamo lasciato in Chiedi Alla Polvere, in una Los Angeles dura, difficile, accogliente come l’inferno, resa ancora più instabile da un terremoto incombente, che ha già fatto sentire la sua potenza minacciosa, ma anche con il sogno dorato di Hollywood a portata di mano, che si rivela di carta (filigranata) sporca.  E con le sue storie d’amore, sempre così complicate, problematiche, coraggiose nello sfidare pregiudizi, convenzioni, prassi. Bandini è un eroe, a suo modo, anche non vorrebbe esserlo; Bandini è un puro, anche se teme di essere il più grande peccatore vivente; Bandini è un grande scrittore, anche se teme di non saper scrivere una frase decente. Tutti vorrebbero essere Arturo Bandini, anche se non tutti ne avrebbero il coraggio.

invito-cancellierefront

Non so se avete notato il nome di due dei musicisti. Giuro che non è voluto, ma trattandosi del mio libro inserito come evento collaterale alla mostra Animali da Lettura non poteva essere diversamente.

Inutile dire che vi aspetto numerosi.

Ma perché ci facciamo sempre riconoscere? Possibile che non ci si possa mai impegnare nel lavoro o in una missione disinteressatamente? E’ così difficile non portarsi a traino amici, amici degli amici, mogli, figli, parenti, perché quando c’è da mangiare per uno c’è da mangiare per tutti, tanto la greppia pubblica è grande, capiente e piena, ma solo per gli eletti? Ieri, Primo Maggio, concertone di piazza San Giovanni, Sergio Castellitto che presenta i vari artisti inserendo discorsi, interviste, citazioni musicali e letterarie. Ora, con i milioni di autori che la letteratura mondiale d’ogni tempo può vantare, possibile che gli venga in mente di citare per ben due volte un’autrice, Margaret Mazzantini, che casualmente è sua moglie e sarà stata ben felice di ricevere ricchi diritti d’autore televisivi? Ma il senso del pudore dove è andato a finire? E il senso del conflitto d’interessi? E il senso della correttezza? E il senso della sazietà? E il senso del rispetto nel momento in cui si chiede di donare soldi per i figli delle vittime sul lavoro? Come dice Vasco Rossi (che ha devoluto centomila euro alla stessa causa): voglio trovare un senso a tante cose anche se tante cose un senso non ce l’ha.

Tutti sanno cosa significhi “cafone”. Non tutti sanno che, nell’etimologia della parola, c’entra una fune. Ancora meno sanno a che cosa serva esattamente la corda, perché ci sono diverse interpretazioni. Io, invece, saprei come usarla.
Quando si va ad uno spettacolo di arte varia, letteratura, recitazione, musica, cinema, si è giustamente liberi di scegliere se seguirlo sino in fondo o, estenuati, interrompere la visione ed andarsene. È legittimo. Tuttavia, sarebbe da tenere in considerazione anche il punto di vista di chi, sul palcoscenico, si sta producendo e sta dando il meglio di sé (a volte non è tantissimo, ma si apprezza lo sforzo) per tener desta l’attenzione del pubblico. E questo cosa fa? Si alza, causando rumore, disturbo e distrazione per gli altri spettatori, e se ne va. Ora, se lo fa in una platea immensa, ad un concerto rock in uno stadio o in uno spiazzo tipo Woodstock, dal palcoscenico non se ne accorgono certamente, ma in un teatro, durante un concerto di musica classica, tra un movimento e l’altro, dove si dovrebbe sentire solo il fruscìo degli spartiti e, al massimo, qualche trattenuto colpo di tosse o starnuto, è una pratica assolutamente nefasta. Senza tenere in considerazione l’impressione che ne ricava l’artista, il quale, mentre si prepara a portare a termine la sua opera, assiste a questa passerella di deambulanti in cerca dell’uscita (sì, perché taluni hanno il pessimo gusto di lasciare la sala passando davanti alla prima fila, a due metri dai musicisti) ed è costretto ad abbozzare, mentre, probabilmente, avrebbe voglia di impalarli in un controfagotto. Questo succede nella Milano colta ed europea, capitale morale e materiale, che frequenta i teatri e i concerti di musica “seria”, che discetta di alta letteratura e filosofia, scienza ed etica, poesia e drammaturgia, ma che ha vuotato nel cesso la buona educazione.