A volte mi sembra di scrivere da sempre e, invece, sono meno di trent’anni. Professionalmente ho usato il linguaggio parlato molto più di quello scritto, anche se da qualche tempo le modalità si sono invertite in termini quantitativi. E sono solo dieci anni che scrivo per piacere personale. Quest’ultima fase è iniziata quando la parola scritta sembrava stesse tornando in auge dopo due decenni di video, immagine, apparenza, body language, talk show. Il blog mi ha spinto a mettere “nero su bianco” quel che penso della realtà che mi circonda, mi contiene e mi permea. Si stava di nuovo trovando il tempo e il silenzio interiore per soffermarsi a leggere. Ricordo post extra-large (non proprio i miei) di amici e colleghi sui quali poi si dibatteva per pomeriggi interi con “commenti” tanto circostanziati, scherzosi, puntuti, talvolta deliranti, da innescare a loro volta discussioni accese che partivano per la tangente del post principale. C’erano anche allora i cosiddetti “troll”, provocatori che agivano appositamente per far degenerare la discussione e quanti sforzi si facevano per rintuzzarne i tentativi, ignorarli, isolarli, persino dialogarci e tentare una conversazione civile. Non sempre con successo, ma spesso sì. E allora era una soddisfazione essere riusciti a coinvolgere una specie di mina vagante difficile da maneggiare, sempre sul punto di esplodere, ma anche stuzzicante per il punto di vista così distante che recava con sé. In questo era un maestro il mai dimenticato Luciano Comida, dal quale ho imparato tanto su come gestire certe situazioni, anche in pubblico. Ma era sempre la parola che prevaleva, la ragione, la riflessione, il confronto. È durato poco. Cinque, sei anni. Poi tutto si è trasferito sul social network, il mezzo con cui, volente o nolente, abbiamo dovuto prendere confidenza un po’ tutti. Ricordo quando mi iscrissi a FB, ormai quattro o cinque anni fa, un collega mi disse: “ah, ti sei iscritto al sito di Zuckerberg proprio ora che tutti se ne stanno andando.” Non so da cosa l’avesse dedotto, ma forse aveva ragione lui, visto che ha fatto più carriera di me, anche se FB esiste ancora. Non sempre avere torto è negativo, anzi, sparar cazzate spesso paga.
Con il “social” tutto è cambiato: ciò che con il blog, nonostante il video, tornava ad assomigliare a un articolo, a un breve saggio o a un elzeviro da terza pagina (per i più bravi), sul nuovo medium subiva una violenta contrazione e si riduceva all’essenzialità di una battuta, un motto, uno slogan. Non sono contrario alla sintesi (come potrei con il lavoro che ho fatto e ancora vorrei fare, ma alle mie condizioni?), ma la complessità del mondo non può ridursi a 140 caratteri, non è naturale, è illogico, anti-storico, stupido. Se poi il post vuole assurgere al ruolo di notizia, notiamo come sia l’iperbole la forma vincente: in altre parole, più la spari grossa e maggiore sarà l’impatto e la credibilità. Ci sono siti, travestiti da giornali, che prosperano sulla moltiplicazione delle loro “notizie” grazie agli utenti di FB, i quali, in buona fede o meno, “condividono” questa melma irritante e corrosiva, buona solo per ingenerare rabbia, esasperazione, violenza, coltivare l’ignoranza e diffondere l’inganno.
Non si dialoga più, il confronto è una perdita di tempo, ragionare è un segno di debolezza e non ci si può permettere di essere deboli quando si combatte. Non sono pochi coloro che si sentono in guerra in questo momento, incoraggiati anche dai messaggi che giungono dalla cosiddetta classe dirigente, totalmente irresponsabile e senza dignità.
E allora, perché non sottrarsi al gioco al massacro, perché contribuire alla popolarità del sistema, perché partecipare e poi criticare? Perché non vivo in una grotta in mezzo alle montagne o in un atollo della Polinesia, ho necessità di restare in contatto con il mondo, anche se non sono l’animale più sociale che esista, ho bisogno di guardarmi intorno e capire cosa succede, ho l’esigenza di interpretare la realtà, leggere gli altri per comprendere chi sono io. Il giorno che sarò sazio di tutto questo sarà l’ultimo.
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Non so se sto provando una sensazione piacevole o malinconica, un sapore dolce o vagamente acido. Dopo quattro lunghi anni di blocchi e riprese, ripensamenti, casini, dolori, delusioni, voglia di buttar via tutto – sono stato sul punto di cancellare tutta la cartella con manoscritto, appunti e vuotare il cestino – ho finito il mio terzo libro, il secondo romanzo, il primo di completa invenzione e fantasia. Il primo libro era, in effetti, una raccolta di post selezionati dal vecchio blog What A Wonderful World, di cui rimane solo una vaga traccia in rete, che rimanda a questo e all’altro. Sono sopravvissuti i Bonsai Suicidi, però, anche se sembra una contraddizione in termini. Silenziosa(mente) era una storia inventata, ma basata su fatti e personaggi parzialmente reali. Quest’ultimo è una storia partorita esclusivamente dalla mia fantasia – lo so, suona come una minaccia – e parla prevalentemente di morte e di morti, ma in una chiave risolutiva di vita. Ci sono molti personaggi, questa volta, per ciò ho dovuto prendere appunti su caratteristiche, cose dette e fatte, per non perdermeli per strada e non renderli contraddittori, perché non c’è niente di peggio di un personaggio che ripete cose già dette o rifà cose già fatte o si trova in più posti contemporaneamente, a meno che non abbia facoltà particolari, cosa peraltro che accade nella storia raccontata. C’è anche la musica, ma poca stavolta, giusto quel tanto che basta in tre solo scene: all’inizio e alla fine del romanzo e in mezzo, come il balletto nello spettacolo di varietà. Non vi piace il balletto nello spettacolo di varietà? Non c’è problema, neanche a me, ma in quei casi mi alzo, vado in bagno e quando torno è finito. La stessa cosa potrete fare voi se e quando lo leggerete. C’è un grosso gatto, questo sì, importante alla fine della storia. Come si intitola il romanzo? Non lo so, il che è un problema nel momento in cui uscirà, perché per acquistarlo non si potrà chiedere al libraio “quel romanzo che parla di morte e morti in una chiave risolutiva di vita con i balletti all’inizio e alla fine e in mezzo come un varietà eccetera”, perché il libraio non lo troverà sul computer (spesso non lo trovano neppure col titolo) e non vi potrà indicare lo scaffale giusto, ma, piuttosto, vi indicherà l’uscita. Non ho ancora deciso il titolo, perché quelli che mi piacevano non li posso usare e quelli che potrei usare non mi convincono. Me ne era venuto in mente uno carino, me lo sono appuntato mentalmente l’estate scorsa mentre ero in vacanza e l’ho ovviamente dimenticato. Sono quasi sicuro che qualcuno lo troverà e lo userà al posto mio. Tornando al fatto che ho finito di scriverlo e rileggerlo e dovrei ora ri-rileggerlo per sistemare alcune cose che mi sembrano di troppo – ma nemmeno poi tante – e rinforzarne alcune che traballano un poco – ma nemmeno poi tanto – il problema, non da poco, si pone per la pubblicazione. Ci sono almeno tre strade principali e un paio secondarie: affidarlo ad un agenzia, che, una volta accettato, potrebbe aiutarmi a trovare un editore; cercare io stesso l’editore; autopubblicarmelo. Le due secondarie si riferiscono proprio a quest’ultima ipotesi: autopubblicarmelo come ho fatto con Silenziosa(mente) attraverso un portale o cercarmi uno stampatore di fiducia e poi pubblicizzare e vendere il libro autonomamente? Insomma, strade lunghe, tortuose e faticose da percorrere. Si accettano consigli.
Ma chi diavolo è mnorgovudkka from Mongolia e cosa vuole da noi? Google lo segnala 4950 volte tra il 28 e il 29 dicembre? E poi ci saluta con un sibillino “buy”, che non si capisce se sia un invito al consumo (e a quel punto qualche sospetto sull’origine ce l’ho) o si tratti semplicemente di poca conoscenza dell’inglese, anche se bye è una delle parole più comuni. Comunque i saluti in realtà arrivano dalla Russia, zona di Mosca e se vi interessa ricambiare il saluto (magari si sente solo/a) il contatto è lenokin.74@mail.ru.
buybye.
Vallanzasca “evade” nel blog e finisce nella “rete”.