Improvvisamente sentii che stavo cadendo dentro me stesso. Risucchiato da una forza che mi attraeva alle spalle, ma altrettanto, avvertivo un’altra forza che mi tratteneva sul posto. Questa contrapposizione di forze produsse l’effetto di sbloccare la mia mente. Sentii chiaramente il rumore di un meccanismo che scattava, poi immaginai un ticchettio di ingranaggi di tutte le fogge, tondi, cilindrici, conici, a mezza luna, che ruotavano, i denti che si incastravano perfettamente negli appositi spazi, molle e bilancieri che ondeggiavano ritmicamente, li vedevo all’interno di un grande, gigantesco orologio. Si muovevano, all’inizio pesantemente, poi sempre più veloci e avvertii alla testa un dolore lancinante, come se avessi qualcosa dentro che scavava a fondo. In realtà non stava scavando, ma uscendo dalla mia faccia. Da quei grossi buchi provocati dalle pallottole che mi avevano ucciso. Vidi chiaramente la prospettiva dei proiettili uscire dalla carne e rientrare nella canna della pistola dalla quale erano stati sparati, come la via di fuga di un quadro rinascimentale. Vidi la maschera grottesca del volto sconvolto del bandito. Rividi me stesso quella tragica mattina mentre entravo in banca, mentre mi svegliavo, la sera precedente, mentre festeggiavo con qualche amico l’inizio delle vacanze e poi sempre più veloce si riavvolse all’indietro il film della mia vita fino all’infanzia e oltre.
Si dice spesso come sarebbe bello poter tornare indietro e rivedere ciò che abbiamo fatto e magari correggere gli errori, aggiustare le cose venute male, rimediare, modificare. Be’, non è bello, è nauseante, doloroso, orribile. La vita è scandita da eventi importanti, quelli che ci piace ricordare, belli o brutti che siano, ma che danno carattere all’esistenza. Purtroppo sono la minima parte di un tempo straordinariamente lungo di insignificanza oceanica. Un’attesa infinita. È come essere al gate di un aeroporto, aspettando un velivolo in ritardo, che non si sa in quale cielo si sia perso col suo carico di passeggeri ed equipaggio. Quando arriva, finalmente, saliamo e ci sentiamo destinati a uno scopo, ma, una volta scesi, ecco di nuovo la sala d’attesa, l’incertezza di avere il biglietto giusto, della corretta destinazione, di ciò che troveremo e di ciò che stiamo lasciando.
Aspettare è il nostro destino principale. E intanto, cerchiamo la nostra prossima meta. Il viaggio, in fondo, pare essere il vero senso della vita, analizzata col senno di poi, il tragitto da una destinazione all’altra alla ricerca di quella poca felicità che ci è concessa, così effimera ed eterea che evapora in un soffio e non sembra ripagare la fatica fatta per conseguirla. Per questo, perennemente insoddisfatti, si riparte per l’indirizzo successivo. Nel frattempo mi rivedevo condurre una vita anonima e incolore, tra lavoro, qualche amicizia superficiale, buoni propositi naufragati nella quotidianità spicciola e la colpevole rassegnazione.In fondo solo quattro episodi avevano realmente dato colore al mio viaggio durato trentasette anni: la nascita, la fuga di mio padre, la morte di Harsha e la mia. Nient’altro. Trentasette anni scanditi da ouverture, finale e due interludi, in una tragica opera prima e ultima, di cui nessuno avrebbe ricordato debutto, repliche e recensioni. E ora qui, in questo limbo aspettando la meta finale, senza che qualcuno annunciasse ritardi, disguidi, disservizi, tempi d’attesa ed eventuali risarcimenti. (da Rapsodia In Nero)