Sonata pelosaLa musica è fatta di note. E questo è noto. Le note hanno suoni specifici che le caratterizzano, da sole e in gruppo. E anche questo è di dominio pubblico. Ma non ci si sofferma mai abbastanza sulla loro personalità.  Delle note, intendo. Per esempio: le note sono di genere femminile, ma quando le chiami per nome sono maschili. Com’è possibile? È come se io girassi per casa in gonna e tailleur, ma quando suonano alla porta o mi chiamano al telefono mi mettessi pantaloni e giacca (giuro che non lo faccio, era solo un paradosso).
Per indicare la prima nota non potrai mai dire “la Do” (la connoterebbe persino di un’intenzione volgare, anche se maschilmente auspicabile), o la quarta nota “la Fa” (e poi cosa fa? L’aspetta?), o la sesta “la La” (come se volesse introdurre un allegro motivetto, la la la la, ma creando una certa confusione) e così via.
Quali ricadute psicologiche può avere una simile condizione di ambiguità su un’entità ancorché singolare ed evanescente come una nota? E come ci poniamo di fronte a ciascuna, con tutte le possibili varianti alterate. Come guardiamo a questa dozzina di travestiti che popolano gli spartiti da secoli, senza che alcuno abbia avuto da ridire sulla cultura gender di cui sono incolpevoli latori?
Prendiamo il Do: la nota più generosa. Da sola (o da solo, la confusione di genere persiste, ma non ci posso fare nulla) ingenera subito fiducia e un senso di solidarietà. In combutta col Mi, poi, assume quasi un’attitudine sacrificale (mi-do), che aumenta aggiungendovi il Sol e formando così l’accordo maggiore (sol-mi-do) e immolandosi totalmente per la causa; con qualche riserva, tuttavia, quando il Mi, nota infida per ragioni che vedremo più avanti, cedendo alla deboscia si fa bemolle e degrada l’accordo a minore, quasi un mezzo passo indietro, un’ombra di esitazione e pentimento prima di procedere in direzione Di Quella Pira (la cui cabaletta verdiana, guarda caso, è proprio in do maggiore con modulazione in do minore per tornare infine alla tonalità più eroica).
Che dire poi del Re, la nota più conservatrice, incline all’assolutismo monarchico, da cui traspare la innata fragilità del potere temporale, schiacciata com’è tra la possanza del Do e l’ambiguità del Mi. Come negli scacchi, il Re è autorevole, ma da solo può fare poco se non si associa, ad esempio, al dinamismo di un Fa, che, tuttavia, per non far cadere l’accordo nella malinconia della tonalità minore, necessita di alterarsi con un diesis correndo il rischio di creare pericolose dipendenze; inoltre, il sovrano ha la pretesa di essere chiamato Si-Re, ma anche qui, la tonalità minore lo intristisce e vorrebbe alterarsi a sua volta imbottendosi di diesis, ma il Sol lo sconsiglia e gli va in soccorso per costituire una Sol-ida coalizione di sol maggiore (sol-si-re). Ma il Re così perde i simboli del potere, il nome, il trono e abdica, ponendo la corona su una pausa e ritirandosi definitivamente.
E veniamo al Mi: nota autoreferenziale per eccellenza, riflessiva, sempre a guardarsi l’ombelico, ma, famelica e influenzabile, sensibile alle istanze sociali provenienti dal basso, profondo e autoritario. È la nota preferita dal rock ’n’ roll, adorata dai chitarristi, ai quali non sembra vero di avere un suono così roccioso e roboante, opportunamente amplificato, da cui far deflagrare i loro furori iconoclasti. Ma questi grattuggiatori a sei corde, ingordi come sono, talvolta lo alterano abbassandolo di un semitono, per venire incontro alle esigenze di quei palloni gonfiati degli ottoni, che al naturale lo detestano; o addirittura di un tono, ottenendo dallo strumento sonorità più ricche, modificando l’accordatura standard e intrecciando rapporti immorali con le altre corde. È a quel punto che il Mi perde la tensione creativa e, narciso com’è, ferito nell’orgoglio e nella dignità, non tornerà più al posto preciso che il sistema temperato gli ha assegnato, ma, per dispetto, sarà sempre un po’ calante, si siederà di traverso, con i piedi sul tavolo, giusto per farsi notare di più.
(continua)